IL TERZO ATTO NEL SEGNO DI DIKE.
Appare surreale calcare le scene nel tempo in cui il Natale ammanta di atmosfera magica e fiabesca questo ventisette di Dicembre, in cui rivive il mito della trilogia eschilea, l’Orestea, della quale si dipanano ulteriormente i fili fatali di una trama sottile,
ma, al contempo, robusta e fitta, che rimanda all’emblematica immagine di una ragnatela. Il coro è il cuore pulsante, che batte forte e intenso parimenti nell’Agamennone, nelle Coefore e nelle Eumenidi, assumendo, di volta in volta, tratti e sfumature peculiari secondo il contesto. La corifea, che tesse il filo conduttore e rappresenta il legame indissolubile dalla situazione iniziale all’epilogo, è Rosario Cambrea, l’alfa e l’omega della vicenda, la voce narrante che in greco antico e in italiano è il “grillo parlante” della tragedia, eco della coscienza destinata a incutere pietà e terrore nell’animo degli spettatori, come Aristotele insegna. Dalla monumentalità e dalla sacralità del mondo concettuale di Eschilo si effonde l’essenza della catarsi che confluisce nella necessità del πάθει μάθος, dell’apprendere attraverso il dolore, e nell’opportunità della giustizia quale valore inalienabile in un consorzio umano atto a superare la concezione del “sangue che genera sangue” e della “violenza che chiama violenza”. Il senso della colpa trova in Eschilo una nitida e schiacciante espressione e si coglie, di atto in atto, nei personaggi, a loro volta vittime e carnefici secondo le circostanze: Agamennone, Clitennestra, Egisto, Oreste sono l’avvicendarsi di un circolo vizioso di responsabilità consapevole, se pur soggetta a un destino inalienabile. Il regista, Antonello Lombardo, acuto osservatore e attento artefice di una rivisitazione desiderosa di tessere insieme aspetti e momenti topici dell’umano agire e patire, accoglie idealmente l’eredità eschilea, per farla rivivere in una dimensione atemporale, valida per l’uomo di ogni tempo. Se nella prima delle tre tragedie egli esalta la fase delle trame occulte, dei piani ingegnosi che si assimilano a fili letali di una ragnatela inalienabile, nella seconda, poi, orchestra il consumarsi di eventi fatali che causano lo sgorgare di lacrime pronte a rendersi manto liquido lungo il quale fluisce quel momento di massima tensione rappresentato dal matricidio di Oreste. Infine si palesa la volontà apollinea, che da Delfi sposta ad Atene lo scioglimento della vicenda e l’epilogo. Il deus ex machina è Atena, il cui giudizio, coadiuvato dal tribunale da lei costituito, è azione risolutiva grazie a sentenza che non può essere rifiutata. Ogni atto è soggetto a giudizio: tutto ora deve essere ricondotto alla giustizia. Questa diviene garanzia delle istituzioni pubbliche e si traduce in promessa di bene, ordine, armonia. Gli antichi costumi cedono il posto a nuove leggi, parto ideale di Dike, dea che è personificazione della giustizia. Solo così le Erinni si piegano al volere degli dei olimpi e si trasformano in Eumenidi. La loro corifea continua a dare pregnanza alle sue parole, come, d’altronde, ha fatto sempre fin dagli stasimi dell’Agamennone e delle Coefore. I suoi interventi sono sferzate verbali, moniti, sentenze gnomiche. La sua voce tuona, quando ricorda che: <<L’atto empio ne genera altri ancora peggiori, mentre nelle case governate dalla giustizia è destino che nasca sempre una bella prole. Giustizia brilla nelle case annerite dal fumo, onora le vite oneste, muove i passi verso dimore pie e conduce ogni evento al suo fine>>. Nei suoi panni, che si assottigliano fino a divenire fili sottili di un’ideale ragnatela, in cui tutto è contenuto e si compie, ella pare volteggiare e continua a proferire parola, mentre <<la paura si ostina ad aleggiare nel suo cuore presago>>, che <<intona dal profondo un canto senza lira, quello luttuoso delle Erinni>>. Quando, poi, Oreste, dopo aver esortato Elettra a vigilare con attenzione all’interno del palazzo, perché tutto proceda secondo i loro piani, esce di scena, la corifea rientra per ammonire: <<Dike punisce chi, contro la legge, calpesta e viola empiamente la sacra maestà di Zeus: la sua spada è forgiata dal Destino. L’inclita Erinni col tempo fa pagare il crimine>>. Infine lo scontro finale: la tenzone la pone di fronte alla divinità delfica, ad Apollo, che, a sua volta, si appella al giudizio di Atena. Lo sdegno induce la veemente guida delle Furie a ritenere il dio assolutamente colpevole: non complice ma autore del delitto. A nulla vale il suo vibrante dire dinanzi al tono solenne e ieratico del figlio di Zeus: egli ha purificato Oreste e difende il suo supplice, affidandolo a colei che <<provvederà a ristabilire l’ordine e la giustizia per l’eternità>>. La corifea depreca lo sconvolgimento procurato dalle nuove leggi: se il matricidio resterà impunito, gli uomini saranno pronti a ogni audacia. Ella sentenzia: <<Talvolta è utile il terrore: è bene apprendere la saggezza attraverso la sofferenza>>. Offesa dall’assoluzione di Oreste da parte di Atena, la triste figlia della Notte, che si definisce dea di antica saggezza, minaccia di abbattere la sua collera sulla terra attica, ma Atena le offre di offrire beni, per riceverne: l’invito è di divenire con le sue compagne dea venerata dagli abitanti dell’Attica>>. La metamorfosi si compie: le Erinni divengono Eumenidi e si pongono al centro del corteo guidato dalla patrona di Atene. Sancito l’accordo tra le Moire e Zeus, ci si prepara a vivere un tempo di bene e prosperità, favorito dalla suprema garanzia della giustizia.
Le luci si spengono su questa quinta replica dell’Orestea e, forse, definitivamente: eppure la sua essenza accompagnerà sempre il gruppo affiatato, che ha fatto rivivere sulla scena questa vicenda che dal tempo senza Tempo del Mito continua a insegnare all’uomo di oggi…
Il mio grazie di cuore e l’augurio di ogni bene ai miei compagni di viaggio…
Flavio Nimpo