IPPOLITO E FEDRA: DESTINI TRAVOLTI DALLA DOLCE E DOLOROSA POTENZA DI AMORE.
Io amo ciò che non si dice
Nessuno ha mai capito il mistero
perché il mistero non è mai esistito
Alda Merini
Il ventotto Maggio duemiladiciotto il Teatro “A. Rendano” di Cosenza ha ospitato l’annuale appuntamento con la tragedia greca, rivissuta secondo l’interpretazione registica di Antonello Lombardo, che, alla guida delle Officine Teatrali Telesiane, ha proposto Ippolito e Fedra: ildramma di una passione inconfessabile. Il dramma euripideo Ippolito incoronato ha ricevutocontaminazioni dalla coturnata di Seneca Fedra, per accostare all’elemento gnomico e riflessivo quello passionale. Si tratta di un connubio che ha fatto scaturire una serie di considerazioni ed emozioni capaci di arrivare nelle pieghe profonde dell’io, per attecchire e germogliare fino a dare frutto. Un mondo remoto, eppure sempre riscontrabile nella realtà per la sua universalità, espande la sua essenza come il battito di un cuore pulsante, mentre acque scroscianti, il respiro delle piante, la pietra dei palazzi si animano sotto un gioco fantasmagorico di luci, che rimandano a simboli, situazioni, momenti topici. Tutto ha inizio davanti a una roccia che stilla acqua, a una selva incontaminata, a un confronto arduo ed estremo fra due divinità dalla complementarità antitetica. Afrodite e Artemide, erme solitarie, si stagliano immani e sono determinanti nel destino degli uomini: due entità a confronto non sempre accessibili per rivelare le loro pieghe recondite e i loro anfratti. Il loro agire imperscrutabile, per certi aspetti, pone l’uomo nella condizione di vivere il contrasto tragico tra libero arbitrio e necessità, causando una serie di conseguenze in grado di lasciare segni indelebili. Fedra, Ippolito, Teseo sono umane presenze segnate dalle loro scelte, che risalgono all’indole e ai tratti peculiari delle divinità, che, appellandosi una alla potenza d’amore, l’altra all’incontaminata astrazione dai vincoli dei sensi e dalla loro passione travolgente, tessono il filo delle loro trame destinate a tracciare sentieri ineludibili. Nella visione registica di Antonello Lombardo, che fonde il mondo concettuale di Euripide, intriso di gnome, con quello di Seneca denso di pathos, la sorte di Ippolito e Fedra si consuma nella danza ineluttabile di Eros e Thanatos, di Ratio e Furor, che rendono vittime e carnefici. Quell’amore, che nell’immortalità dei lirici greci è la dolce e amara creatura, forza possente in grado di scuotere come vento impetuoso le querce di montagna, assume in questo dramma i tratti e i contorni di una passione “insana” e incontenibile, che costringe a guardarsi allo specchio e a vedere, come riflesso, il sentire degli altri.
La nutrice euripidea ci ricorda che <<rapidamente si cambia e niente dà piacere di ciò che si ha, ma si preferisce quello che manca>>, aggiungendo che <<è meglio essere ammalati che curare gli altri, perché la prima è una sofferenza semplice, nell’altra c’è insieme pena d’animo e fatica fisica>>.
La saggezza euripidea si racchiude ancora nel sapere gnomico delle parole successive dell’anziana donna: <<Tutta la vita umana è dolente e dalle fatiche non c’è respiro (…). Disperatamente si ama la luce terrestre, perché non si ha esperienza di altre vite e ci si abbandona a inutili favole>>.
Le scelte registiche di Antonello Lombardo ci guidano lungo questo arduo e tortuoso cammino degli uomini, facendo riecheggiare il senso della moderazione vanamente ricordato dalla ragione e inascoltato dall’impeto passionale, che eccede, trabocca e causa smarrimento.
Tale condizione induce la vecchia nutrice a indulgere e a invitare Fedra a <<spingersi oltre e a soddisfare il desiderio, essendo, ormai, questione di vita e di morte>>, pur consapevole di scelte ed effetti. <<Il terribile soffio>> di Afrodite, allora, <<investe ogni cosa>> e consente a suo figlio Eros, signore degli uomini, di devastare e portare rovina. Se da un lato lo sguardo euripideo si rivolge con umanità all’uomo, dall’altro il sapore stoico della considerazione senecana induce a ritrovare il controllo di sé, cercando di sottrarsi alla seducente corruzione della passione travolgente.
Antonello Lombardo ha inteso fondere l’essenza gnomica greco-romana nel fluire di accadimenti che comportano scelte e reazioni sempre disponibili a fornirci spunti di riflessione validi per l’uomo di ogni tempo a causa della loro indiscutibile matrice universale. Acqua e terra, in natura, sono specchio del corpo e dello spirito umano, sono rimando a contaminazione e a purezza di azioni e sentimenti: Afrodite e Artemide ne sono rappresentazioni divine, figure emblematiche, al contempo, antitetiche e complementari. Ubris e Nemesi alitano il loro soffio fatale e così si compie quel che era inevitabile. Come lamenta Teseo, <<si soffre il dolore più grande>>, perché piomba addosso il destino che schiaccia al pari di imponderabile macigno. Egli stesso aggiunge, ormai devastato dalla scoperta dell’innocenza del figlio, macchiata dall’infamia altrui: <<Tutti gli uomini dovrebbero avere due voci, una autentica e l’altra copiata, in modo che quella ingiusta possa essere sbugiardata da quella giusta così da evitare di essere ingannati>>.
Come il sovrano, padre di Ippolito, constatiamo che si ignora fin dove possa spingersi il cuore umano. Nell’epilogo della tragedia è Artemide, dea pura e intatta dal contatto con gli uomini, a essere resa risolutrice dell’intricata vicenda, avvolta nei nodi di responsabilità e innocenza. Nella realtà quotidiana dovrebbe essere <<l’apprendimento attraverso il dolore>>, capace di generare assennatezza, a guidare i passi incerti dell’uomo fragile, sebbene la sua vita sia irrimediabilmente legata alla travagliata mutevolezza.
Non resta che affidarsi a una pietà celeste, a una provvidenzialità superiore, capace di raccogliere il nostro gemito e il nostro anelito, vibrante di una tensione insopprimibile.
L’attenta osservazione di tutto questo flusso di accadimenti cala, con acuta e abile regia, in un intreccio armonico di scenografia, di sequenze, di danze, di stasimi, di colonna sonora, di luci e di sfondi atti a rapire per incanto in un coinvolgimento che fa scaturire emozioni e riflessioni.
Il dramma di Ippolito e Fedra è stato scelto senza esitazioni e fortemente voluto da parte di tre compagni di viaggio, il regista e i suoi collaboratori, che continuano a condividere “l’esperienza greca”, per citare il titolo di un pregevole saggio di C. M. Bowra, incentrato sul bisogno umano non solo di conoscenza ma anche di identità. La rivisitazione del testo tragico è l’ideale congiunzione di acqua e terra, di aria e fuoco, di istinto e sentimento, di corpo e anima nell’intrico di rami fitti che si protendono e rivelano le fattezze di un albero svettante, sfondo e, al contempo, custode silente, ma palpitante, della successione degli eventi drammatici, mentre intorno al suo possente tronco giunchi filiformi si flettono al soffio del vento, richiamando con il loro lieve ondeggiare il passaggio di uomini e cose e la fragilità dell’essere umano. Il dipanarsi della vicenda pare impigliarsi fra le sue fronde e la pianta secolare si assimila a specchio della vita, di cui fa parte la morte, che fa adagiare il corpo esanime di Ippolito presso le sue radici fuoriuscite dal terreno, nodose e, ormai, lignee come la corteccia. Quel giovane, fiero della sua quotidianità casta e dedita alle arti e alle pratiche care alla dea venerata, l’intatta Artemide, non è più, ma riecheggiano le parole pronunciate in attesa del suo momento fatale: <<La mia vita è interamente distrutta ed è stato inutile praticare tra gli uomini la virtù della religione>>. Il giovane era solo e rimane tale: in lui si rivede la solitudine dell’uomo alle prese con il suo percorso individuale, ravvisabile in modo topico, quando Artemide si congeda da lui dicendogli: <<Addio, a me non è lecito guardare gli estinti e contaminarmi col fiato di chi muore>>. Come Ippolito ricorda: <<Il buio cala sugli occhi>> ed egli prega il padre di <<nascondergli il capo nel velo>>. Sono scene e parole emblematiche, che nell’epilogo richiamano <<molto ondeggiare di lacrime>>. Intanto sembra di udire l’eco dei versi di Pindaro, ideale immagine speculare di tale concezione greca: <<La vita dell’uomo dura un giorno. Che siamo/ o che non siamo? L’uomo è solo un’ombra/ in un sogno, ma se dagli dei si diffonde splendore/fulgido lume sta sull’uomo/ e la vita diventa dolce come miele>> (dalla Pitica VIII).
L’ultimo soffio vitale di Ippolito, accolto dalla sua amata selva, incontaminata come lui, si raccogliein quell’albero, che è simbolo e protagonista silente, per ricordare, come Alda Merini scrive, che <<Il più bel teatro da guardare è il proprio destino>> e che <<più ci lasciano soli, più si splende>>, mentre <<nessuno rinuncia al proprio destino anche se è fatto di sole pietre>>.
Una lieve brezza si solleva, carezza le fronde, si ode lo stormire di foglie, il giunco oscilla lieve, ondeggiando come palpito d’anima, la luna si tuffa nel blu del cielo, che ospita la notte, pronta a calare sulla selva, che pare tingersi dei colori di un’aurora boreale. Il rorido astro notturno, signora della notte, è la conclusione ad anello della rappresentazione, che ha avuto il suo avvio con il corpo celeste simile ad opale lattiginoso e a perla lucente. Il compianto di Ippolito è cessato, tutti sono andati via, nell’aria si dilegua l’eco tacita di quel che è accaduto.
Resta soltanto l’aura di pietà e pianto, che avvolge l’agire dell’uomo, fragile foglia e granello nell’imponderabile del mistero cosmico, in cui aneliamo l’eterno…
Flavio Nimpo, docente di Lingue Classiche