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IL TOPOS DELLA ROSA DAL MONDO ANTICO AI GIORNI NOSTRI 

rosa

 

 

La rosa, fiore misterico dai molteplici significati, ha assunto diverse valenze sin dall’alba dei tempi come sinonimo di bellezza, amore, sensualità, ma anche purezza e rinascita. È diventato uno dei fiori di cui, ricorrendo in ambito artistico e letterario, si abbia testimonianza fin dall’antichità come vero e proprio topos della poesia in analogia con la donna e con l’amore.


Un primo accenno si può trovare, nel mondo occidentale, in un frammento della celebre poetessa greca del VII secolo a. C. Saffo:


Molte corone di viole
e di rose e di croco insieme
accanto a me cingesti,
e molte collane intrecciate
intorno al delicato collo,
fatte di incantevoli fiori. (Fr.96 Diehl)

Qui la rosa è vista come uno degli incantevoli fiori che le amiche intrecciavano insieme, per creare corone da mettersi al collo ma si carica di intense suggestioni, perché è guardata con struggente nostalgia nella prospettiva del ricordo ed evoca un tempo, una stagione della vita irrimediabilmente finita e rimpianta: è l’uso di quel verbo al passato (cingesti) che trasforma le rose e gli altri fiori in emblemi araldici di una raffinata e perduta intimità.
Sei secoli dopo, a Roma, Orazio riprenderà Saffo e un suo conterraneo Alceo. Nelle sue odi troviamo una rosa “tardiva“, fuori stagione e per questo più preziosa addirittura inaspettata per il poeta della “simplicitas”, il quale nel primo libro delle Odi (v.38) scrive:

Ragazzo, non amo lo sfarzo dei Persiani,
le corone intrecciate di tiglio;
smetti di cercare in quali luoghi attarda la rosa d’autunno.

Non voglio che tu aggiunga altro
al semplice mirto: il mirto va bene
per te che mi servi e per me
che all’ombra della vita bevo.

Se in Orazio, la rosa diventa qualcosa di eccessivo e, pertanto, da evitare, nelle Metamorfosi di Apuleio, autore africano ed intellettuale bilingue (greco-latino), le rose simboleggiano il primo grado di iniziazione ai misteri di Iside.
Quando infatti, dopo mille peripezie, il protagonista Lucio, trasformato in asino per uno scambio di pozione magica, prega la dea Iside di restituirgli sembianze umane, ella gli appare dicendo: «Eccomi, sono qui, pietosa delle tue sventure, eccomi a te, soccorrevole e benigna. Cessa di piangere e di lamentarti, scaccia il dolore, grazie ai miei favori ormai già brilla per te il giorno della salvezza. Sta’ ben attento, invece, agli ordini che ti do: il giorno che sta per nascere da questa notte, come vuole un’antica tradizione, è consacrato a me. In questo giorno cessano le tempeste dell’universo, si placano i procellosi flutti del mare, i miei sacerdoti, ora che la navigazione è propizia, mi dedicano una nave nuova e mi offrono le primizie del carico. Dunque, con animo puro e sgombro da timore, tu devi attendere questo giorno a me sacro.  Infatti ci sarà un sacerdote. in testa alla processione, che per mio volere porterà intrecciata al sistro una corona di rose. Senza esitare tu fatti largo tra la folla e segui la processione, confidando in me, poi avvicinati a lui come per baciargli devotamente la mano e afferrargli le rose. Vedrai che in un attimo ti cadrà questa brutta pelle d’animale che anch’io già da tempo detesto». Così avviene: grazie alle rose della dea, Lucio riacquista sembianze umane e si avvia sulla strada dell’iniziazione.
Quando nel Medioevo, all’inizio del sec. XII, nascono le nuove letterature nelle lingue romanze, la rosa ispira la poesia trobadorica delle corti provenzali in lingua d’oc e verso la metà del Duecento un poema allegorico in lingua d’oil, che porta la rosa già nel titolo: Le Roman de la rose. L’opera è concepita come un’ars amandi  e fornisce una specie di codice o summa dell’amor cortese. Ebbe larghissima fortuna in tutta Europa e anche in Italia, dove fu tradotta e rielaborata nel Fiore di quel Ser Durante, che oggi è quasi unanimemente identificato con Dante. Il titolo è dovuto al fatto che la donna amata è rappresentata da una rosa in boccio, scoperta dall’io-narrante in un giardino un mattino di primavera. Il poema narra le varie tappe del percorso, pieno di ostacoli, che l’innamorato deve compiere per cogliere la rosa, ossia per conquistare (anche fisicamente), la donna. Nel Medioevo la rosa è celebrata non solo dalla lirica profana ma anche dalla letteratura mistica: per il Cristianesimo la rosa, potenziando all’infinito il suo valore simbolico, diventa il simbolo dei doni pentecostali dello Spirito Santo, di Cristo, della Madonna ed è associato a varie figure di santi. La rosa più illustre è quella a cui si riferisce Dante nel Paradiso,(vv.1-24), dove contempla la Candida Rosa, composta dalle anime dei beati, che celebrano il loro trionfo nella visione beatifica di Dio:
In forma dunque di candida Rosa/ mi si mostrava la milizia santa/ che nel suo sangue Cristo fece sposa
La metafora continua allusivamente nell'immagine degli Angeli che, come api, volano da Dio ai Santi, per infondere la Carità. Ed è significativo che proprio dalla Rosa, a cui è tornata, lasciando la guida a San Bernardo, Beatrice riservi a Dante l’ultimo sguardo e l’ultimo sorriso.

Così orai; e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò a l’etterna fontana.(XXXI, VV.91-93)

D’altra parte proprio Bernardo di Chiaravalle, una delle figure più significative del Misticismo medievale e restauratore del culto di Maria, dovette suggerire a Dante l‟immagine della rosa, che la teologia associa alla Madonna.
La rosa è soprattutto simbolo della bellezza e degli amori terreni.
Anche in questo caso può essere pura, come nella ballata Fresca rosa novella di Cavalcanti, dove la rosa è simbolo della bellezza di una donna elevata al rango di angelicata criatura.

Fresca rosa novella,
 Piacente primavera,
     Per prato e per riviera
     Gaiamente cantando,
     Vostro fin pregio mando — a la verdura.
 Lo vostro pregio fino
     In gio’ si rinovelli
     Da grandi e da zitelli
     Per ciascuno cammino:
     E cantinne gli augelli
     Ciascuno in suo latino
     Da sera e da mattino
 Su li verdi arbuscelli.
     Tutto lo mondo canti,
     Poi che lo tempo vene,
     Sì come si convene,
     Vostr’altezza pregiata,
     Chè siete angelicata — criatura.

 

Analogamente ritroviamo l'immagine della rosa candida nel sonetto L‘aura che ‘l verde lauro e l‘aureo crine di Petrarca, in cui la donna è come una rosa “candida”, dunque, pura, protetta da “dure spine”, ossia dal senso dell’onestà:

Candida rosa nata in dure spine,
quando fia chi sua pari al mondo trove,
gloria di nostra etate? O vivo Giove,
manda, prego, il mio in prima che,l suo fine

Successivamente nel poemetto Corinto (vv.163-185) di Lorenzo de Medici il tema è associato a quello della fugacità dell'amore e della bellezza. In un piccolo orto il pastore osserva belle rose “candide e vermiglie”; mentre alcune devono ancora sbocciare, altre sono già sfiorite a terra:

Eranvi rose candide e vermiglie:
alcuna a foglia a foglia al sol si spiega;
stretta prima, poi par s’apra e scompiglie:

altra più giovanetta si dislega
apena dalla boccia: eravi ancora
chi le sue chiuse foglie all’aer niega:

altra cadendo, a piè il terreno infiora.
Così le vidi nascere e morire
e passar lor vaghezza in men d’un’ora.

Il pastore apprende la lezione. E così rivolge all’amata l‟unica possibile preghiera:
Cogli la rosa, o ninfa, or che è il bel tempo

Con il mutamento di prospettiva segnato dalla civiltà umanistico-rinascimentale, con il passaggio dal teocentrismo all’antropocentrismo, si osserva la bellezza delle rose e il loro inesorabile sfiorire. Alla corte di Lorenzo il Magnifico opera uno dei principali esponenti di quella fioritura artistico-letteraria: Angelo Poliziano. Poesia, filologia, cultura filosofica, musicale e artistica in lui si intrecciano indissolubilmente e convergono in una visione tutta terrena e laica dell’uomo e della vita: l’uomo ha solo la sua “virtù” e la sua dignità come strumento per orientarsi nel mondo e l’arte, in particolare la letteratura, è il vertice della sua attività, la suprema  manifestazione della sua nobiltà spirituale e della sua tensione civilizzatrice.
In Poliziano il tripudio della fioritura primaverile evoca, metaforicamente, la giovinezza: coglier la rosa  per farne ghirlande, quando apre tutti i suoi petali, «quando è più bella, quando è più gradita» significa godere delle gioie della giovinezza e della vita; la sfioritura della rosa – che a quel tempo non era rifiorente – allude al declino irreversibile della giovinezza, alla precarietà della vita («prima che sua bellezza sia fuggita»); il messaggio conclusivo, l’invito a cogliere «la bella rosa del giardino» «mentre è più fiorita» è l’equivalente del carpe diem oraziano, è l’esortazione a godere il presente e i suoi piaceri perché “ruit hora” – e il senso dell’inesorabile scorrere del tempo, della labilità, dell’effimero vela di sottile malinconia questo quadro di esuberante pienezza vitale.

 

I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio in un verde giardino.

Eran d’intorno violette e gigli
fra l’erba verde, e vaghi fior novelli
azzurri gialli candidi e vermigli:
ond’io porsi la mano a côr di quelli
per adornar e’ mie’ biondi capelli
e cinger di grillanda el vago crino.

Ma poi ch’i’ ebbi pien di fiori un lembo,
vidi le rose e non pur d’un colore:
io colsi allor per empir tutto el grembo,
perch’era sì soave il loro odore
che tutto mi senti’ destar el core
di dolce voglia e d’un piacer divino.

I’ posi mente: quelle rose allora
mai non vi potre’ dir quant’eran belle:
quale scoppiava della boccia ancora;
qual’eron un po’ passe e qual novelle.
Amor mi disse allor: «Va’, co’ di quelle
che più vedi fiorite in sullo spino».

Quando la rosa ogni suo’ foglia spande,
quando è più bella, quando è più gradita,
allora è buona a mettere in ghirlande,
prima che sua bellezza sia fuggita:
sicché fanciulle, mentre è più fiorita,
cogliàn la bella rosa del giardino.

 

Motivo analogo è ripreso da Ariosto, che lo arricchisce di toni divertenti e maliziosi.

 

La verginella è simile alla rosa,
Ch’in bel giardin su la nativa spina
mentre sola e sicura si riposa,
né gregge né pastor se le avicina;
l’aura soave e l’alba rugiadosa,
l’acqua, la terra al suo favor s’inchina:
gioveni vaghi e donne inamorate
amano averne e seni e tempie ornate.

Ma non sì tosto dal materno stelo
rimossa viene e dal suo ceppo verde,
che quanto avea dagli uomini e dal
cielo favor, grazia e bellezza, tutto perde.
La vergine che’i fior, di che più zelo
che de’ begli occhi e de la vita aver de’
lascia altrui côrre, il pregio ch‘avea inanti
perde nel cor di tutti gli altri amanti.

Nel primo canto dell’Orlando Furioso (I 42-43), Sacripante, rude guerriero saraceno, come tanti innamorato di Angelica, teme di averla perduta. Si abbandona alla triste constatazione che la verginella, come la rosa, si conserva “sicura” sulla nativa spina solo per poco tempo, fino a quando, rimossa dal suo stelo, perde ogni bellezza e attrattiva. Nonostante l'apparente struggimento con cui il motivo laurenziano evolve, fondendosi con il modello classico di Catullo (LXII), non manca, come è tipico in Ariosto, l'ambiguità. Se da una parte si intreccia con il più sofferto sentimento della fugacità, che richiama anche il motivo di Angelica bella e fuggente; dall’altra non si possono non cogliere i risvolti maliziosi: il tema della fugacità si trasforma in una allusione alla fragilità della verginità e della purezza. Alla fine, infatti, il Saraceno, smessi gli abiti “cortesi” e cavallereschi, dimostra senso pratico, dimentico apparentemente della struggente verità cui poco innanzi si era abbandonato:

Corrò la fresca e matutina rosa,
che, tardando, stagion perder potria.

 

La voce “epicurea” del Rinascimento tende, al volgere del secolo, a mutare: il motivo si declina in modo ancora differente in Tasso. Nel giardino di Armida, un pappagallo pronuncia un Elogio alla rosa:

– Deh mira – egli cantò – spuntar la rosa
dal verde suo modesta e verginella,
che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa,
quanto si mostra men, tanto è più bella.
Ecco poi nudo il sen già baldanzosa
dispiega; ecco poi langue e non par quella, quella
non par che desiata inanti
fu da mille donzelle e mille amanti.

Così trapassa al trapassar d„un giorno
de la vita mortale il fiore e ‘l verde;
né perché faccia indietro april ritorno,
si rinfiora ella mai, né si rinverde.
Cogliam la rosa in sul mattino adorno
di questo dì, che tosto il seren perde;

cogliam d‘amor la rosa: amiamo or quando esser si puote riamato amando.


Nella Gerusalemme liberata (XVI, 14-15) l‟amore è insieme sublimato e sensuale. L‟immagine della rosa, pur richiamando quasi testualmente i precedenti umanistici, esprime una visione più sofferta, una sensualità più viva. E afferma il senso della vanità della vita e della fuggevolezza del piacere.
Alla rosa dedica un celeberrimo elogio nel suo capolavoro, il poema ‘enciclopedico’ Adone (1623), l’autore barocco Giambattista Marino, spiegandoci il perché del suo colore rosso vivo. Chi parla è la dea Venere, che si era punta il piede con le spine di un cespuglio di rose bianche, era stata curata da Adone e se ne era felicemente innamorata. Il sangue della dea aveva, però, imporporato la rosa.

156] Rosa, riso d'Amor, del Ciel fattura, 
rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo e fregio di natura,
della Terra e del Sol vergine figlia,
d'ogni ninfa e pastor delizia e cura,
onor dell'odorifera famiglia;
tu tien d'ogni beltà le palme prime,
sopra il vulgo de' fior donna sublime.

[157] Quasi in bel trono imperatrice altera
siedi colà su la nativa sponda;
Turba d'aure vezzosa e lusinghiera
ti corteggia d'intorno e ti seconda;
e di guardie pungenti armata schiera
ti difende per tutto e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto,
porti d'or la corona e d'ostro il manto.

158] Porpora de' giardin, pompa de' prati,
gemma di primavera, occhio d'aprile,
di te le grazie e gli amoretti alati
son ghirlanda a la chioma, al sen monile.
Tu qualor torna agli alimenti usati
ape leggiadra, o zeffiro gentile,
dài lor da bere in tazza di rubini
rugiadosi licori e cristallini.

 

Marino scrisse moltissimo, con uno stile virtuosistico volto a spiazzare le normali attese del lettore a colpi di figure retoriche, metafore, iperboli davvero imprevedibili, che gli procurarono uno strepitoso successo ai suoi tempi. Per il gusto moderno risulta forse un po’ pesante, ma un grande del Novecento, lo scrittore argentino Jorge Louis Borges, lo ammira moltissimo e ne fa il protagonista di uno dei suoi racconti, Una rosa gialla (da L’artefice, 1960). In Borges la rosa dà addirittura il titolo ad una raccolta di poesie del 1975, La rosa profonda, ed è un tema ricorrente nella sua produzione come si può evincere dalla seguente poesia:

Prima di entrare nel deserto
i soldati bevvero a lungo l’acqua della cisterna.
Ierocle gettò per terra
l’acqua della sua brocca e disse:
Se dobbiamo entrare nel deserto,
io sono già nel deserto.
Se la sete deve bruciarmi,
che già mi bruci.
Questa è una parabola.
Prima di sprofondarmi nell’inferno
i littori del dio mi permisero di guardare una rosa.
Quella rosa è ora il mio tormento
nell’oscuro regno.
Un uomo fu abbandonato da una donna.
Stabilirono di fingere un ultimo incontro.
L’uomo disse:
Se devo entrare nella solitudine
sono già solo.
Se la sete deve bruciarmi,
che già mi bruci.
Questa è un’altra parabola.
Nessuno sulla terra
ha il coraggio di essere quell’uomo.

Il senso struggente e sofferto della caducità di ciò che è bello si ritrova, invece, nel “nostro” Fabrizio de André. Nella Canzone dell’amore perduto, le rose sono viste nella loro caducità e per questo vengono associate alla malinconia di un amore che finisce irrimediabilmente:

Vorrei dirti, ora, le stesse cose
ma come fan presto, amore,
ad appassire le rose
così per noi.

Il motivo ritorna ne La canzone di Marinella, in cui la rosa è ancora una volta il simbolo di fuggevolezza, ma questa volta le è accostata l‟idea della preziosità che proprio dalla brevità deriva:

Questa è la tua canzone Marinella
che sei volata in cielo su una stella
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno, come le rose

Il motivo non è dissimile in Gozzano, poeta del rimpianto, sempre lucido e disincantato. In Cocotte (vv. 68-71), ricordando l'amore infantile per una bella ma poco onesta "signorina", chiedendosi, dopo tanti anni, quale destino l'abbia attesa, comprende in un istante come proprio quello, mai goduto, sia stato l'unico vero amore della sua vita:

Il mio sogno è nutrito d'abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
che potevano essere e non sono state.

In Gozzano, novello Sacripante, echeggia la struggente consapevolezza, che solo ciò che non è goduto è destinato a durare nei nostri desideri. E l'invito a cogliere la rosa può, dunque, totalmente essere capovolto. La potenza semantica dell’immagine della rosa non sfugge a Umberto Eco, che, a conclusione del suo romanzo, dal programmatico titolo Il nome della rosa, riprende variandolo il verso di Bernardo Morliacense: Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus

La rosa originaria esiste per il nome, noi abbiamo i nomi nudi, ossia l’essenza di ogni cosa è nel suo nome, noi conosciamo solo i nomi, non la realtà delle cose.
La rosa, dunque, è motivo ricco di interpretazioni, sempre rinnovabili, mai finite. Lo stesso Eco ammette che la rosa è una figura così densa di significati da non averne quasi più nessuno. L’aspetto più appariscente e sorprendente è, dunque, la ricchezza espressiva di questa immagine, la sua mutevolezza, la difficoltà di definirla in maniera esaustiva. La rosa, oltre a non essere un fiore come tutti gli altri, cessa di essere solo oggetto per diventare pura Idea. E, se Eco si chiede se l’essenza di una rosa, e quindi di ogni cosa, sia nel suo nome, a noi pare opportuno, in un certo qual modo, arrenderci al potere della Rosa con le parole di Giorgio Caproni, in Concessione:

Buttate pure via
ogni opera in versi o in prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
Cos’è, nella sua essenza, una rosa.

Francesca Carbone, III A Quadriennale

Articolo inviato dal prof Flavio Nimpo