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LA LEZIONE MAGISTRALE DEL GRANDE GIURISTA INCANTA L’UDITORIO

Per conoscere gli italiani bisogna andare dove questi sono morti per avere la libertà. Dobbiamo dire ai giovani di non dimenticare, di leggere quello che resta, di ascoltare le parole, perché dietro c’è una visione delle cose, una cultura, una capacità e abitudine acquisita dall’uomo sociale

così ha detto in un passaggio importante del suo discorso introduttivo Enzo Paolini, presidente della Fondazione del Premio Sila, il 25 novembre scorso, presso Palazzo Arnone di Cosenza, presentando la lectio magistralis del grande giurista italiano Gustavo Zagrebelsky, presidente della Corte costituzionale nel 2004, premiato dalla Fondazione con il premio alla carriera. Un altro nome illustre si aggiunge ai grandi personaggi della cultura invitati dalla Fondazione: Giuseppe Ungheretti, Carlo Levi, Rosario Villari, Alberto Sordi, Stefano Rodotà, solo per citarne alcuni. Il Premio Sila da anni si sforza di dare un contributo alla società moderna promuovendo la conoscenza, l’analisi, gli strumenti che consentono di decodificare la realtà con i suoi problemi, nella sua complessità.

Zagrebelsky ha subito introdotto il tema della sua lezione: la giustizia e l’ambiguità delle sue rappresentazioni. Non si sa cosa sia, “non si sa quid est iustitia”, dice. Essa presenta tante sfaccettature interpretabili in modo ambivalente. Fin dall’antichità presenta forme contraddittorie. La Dea giustizia per gli Egizi era Maat, la dea piumata, mentre i Greci distinguevano ΘFμις, giustizia divina, e DLκη, sua figlia, rappresentante la giustizia terrena. In ogni caso la giustizia è sempre stata raffigurata da una figura femminile, con la spada e la bilancia, sebbene il potere sia sempre stato nelle mani degli uomini, raffigurati, invece, con spada e scettro, simbolo del potere.

Perché la donna? In epoca cristiana è il simbolo forse più scontato: può rappresentare la Madonna, speculum iustitia e mater Dei, simbolo di amore infinito e misericordioso per i suoi figli, ma anche Eva, corruttrice degli uomini e simbolo dell’eterno peccato che gli uomini devono scontare per sua colpa.

La bilancia è il simbolo del giusto, di qualcosa che tiene conto di tutte le ragioni, di tutte le parti. Ma se il peso di entrambe le parti è uguale?

“Si racconta nel Decretum Gratiani (testo di diritto risalente al 1100) di un tale, giudice dalla carriera immacolata alle spalle. Questi, in uno degli ultimi processi della sua carriera fece un errore scandaloso. Una volta interpellato sul motivo di un tale errore, rispose che per tutta la vita aveva tirato a sorte per decretare la vittoria di una o dell’altra parte, abbassando così le possibilità di errore del cinquanta per cento; se fosse stato condizionato dai mille condizionamenti quotidiani, quali lo stato d’animo, la disposizione delle parti e gli agenti metereologici, avrebbe avuto molto più margine di errore. Giustificò, quindi, il suo sbaglio attribuendolo alla mancanza di vista, effetto dell’età avanzata, che non gli aveva permesso di vedere bene la faccia del dado.” Un esempio emblematico, secondo Zagrebelsky, della mutevolezza della giustizia e delle parti che la interpretano.

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Continuando lo studio dei simboli, il giurista ha illustrato il significato della spada, altro attributo delle figure che incarnano la giustizia. Essa può essere considerata come un simbolo di violenza e determinazione, come la spada dell’Arcangelo Michele, che veniva utilizzata per allontanare il Male (se stessimo parlando, però, di giustizia divina), oppure come simbolo di protezione, facendo scaturire questo significato da un episodio risalente al 1792, quando, durante la rivoluzione francese, un capitano delle guardie svizzere doveva essere giustiziato. La folla, volendo approfittare del momento, provò a linciare il comandante, ma il giudice non lo permise, poiché il generale in quel momento si trovava sotto la sua protezione.

L’immagine femminile della giustizia, nel corso del tempo, ha subito dei cambiamenti: particolarmente significativi sono la benda che copre il suo volto e un ginocchio scoperto nelle rappresentazioni da seduta. Per quanto riguarda la benda, l’interpretazione originaria ha valenza positiva: la benda è qualcosa che rende gli uomini uguali, eliminando qualsiasi parzialità dovuta allo status dei processati. Accanto all’interpretazione positiva, l’uguaglianza degli accusati, c’è anche quella negativa, cioè la follia. In un dipinto medievale, La nave dei folli viene raffigurato, infatti, un mago, simbolo di follia, dietro la giustizia bendata, intento a sussurrarle qualcosa all’orecchio. Nell’Antologia di Spoon River si racconta di un giudizio risalente all’America degli anni ‘30, giudizio vistosamente condizionato da interessi politici. Un giovane, che si trova in mezzo alla folla, provando a strappar via dal viso della giustizia la sua benda, scopre il suo volto marcio di corruzione, un volto coperto per non mostrare agli altri la sua vera identità.

L’ultimo simbolo analizzato da Zagrebelsky è stato il ginocchio nudo della giustizia, nelle immagini in cui essa appare seduta. Esso può essere interpretato come simbolo di prostituzione (una giustizia che si offre a chi può comprarla, che è pronta a ricevere un compenso per i suoi servigi), oppure può essere intesa nel senso opposto, cioè come simbolo di misericordia: era un uso tradizionale, infatti, quello di abbracciare le ginocchia del potente in segno di riconoscenza (pensiamo a Priamo quando, abbracciando le ginocchia di Achille, chiede la restituzione del cadavere di suo figlio). Tale tradizione è il riconoscimento di uno dei sentimenti più importanti, come la pietà, ma rappresenta anche un aspetto anche negativo, in quanto lega la giustizia a qualcosa di soggettivo, che, per definizione, mette su due piani diversi gli uomini: coloro che sono pregati e coloro che devono pregare per avere quello che, in teoria, spetta loro di diritto.

Tutta la dottissima, affascinantissima lezione di Gustavo Zagrebelsky mirava ad esplicitare quanto il mondo in cui viviamo sia pieno di contraddizioni e ambivalenze. “Sotto il sole non c’è nessun uomo che faccia la bontà di tutte le cose”: c’è sempre un lato negativo, uno nascosto. Zagrebelsky ha così concluso: “Forse non c’è un modo giusto e uno sbagliato di concepire la giustizia; forse tutto dipende dal punto di vista e dal modo in cui essa viene operata. Forse la giustizia buona rimarrà sempre quella dei potenti, mentre quella sbagliata rimane quella delle sue vittime, dei subalterni, degli impotenti. Fino a quando la società sarà divisa, tutti i simboli saranno visti ambivalentemente, tutti saranno simboli di divisione”.

Adua Gervasi, V E