A partire dalle parole di Primo Levi, le riflessioni di tre studentesse della classe IV A EU, guidate dalla Prof.ssa Francesca Mastrovito nel confronto sul tema della violenza e della memoria
Primo Levi, “Sommersi e salvati”, cap.V
Soffermando la mia attenzione sullo studio della letteratura, pongo lo sguardo su una citazione incalzante, che tende a cogliere ogni essenza del mio pensiero: “Tutte queste sofferenze rappresentavano il presunto diritto del popolo superiore di asservire o eliminare il popolo inferiore” (Primo Levi, “Sommersi e salvati”, cap. V).
Analizzando il mio punto di vista da lettrice sempre pronta ad approfondire questi temi così delicati e immutabili, intravedo un percorso che pone le proprie radici nella storia, nascosto dagli albori delle nuove generazioni; come se queste ultime potessero in qualche modo reincarnare la siepe di Leopardi, al di là della quale l’infinito di eventi accaduti si succedeva.
Cito l’ “Infinito”, poiché “infinita” è la storia dell’umanità ricoperta da un manto di violenza e crudeltà, mirato ad accrescere i vincitori dimenticando i vinti.
Così come successe il 22 Marzo 1933, con l’apertura del primo campo di concentramento nazista in Germania.
Da quel momento in poi, la storia fu protagonista di una rivoluzione che marcherà per sempre le menti di ogni essere umano: il genocidio degli ebrei in quanto considerati esseri inferiori rispetto ai tedeschi.
Ogni caso di assassinio, in questa vera e propria “uccisione di massa”, fu dettato dagli animi violenti e terroristici dei nazisti, il cui fine ultimo era poter affermare la propria supremazia attraverso la teoria del superuomo, non interpretata come pensiero oggettivo del filosofo Friedrich Nietzsche, bensì convertita alla malvagità ariana: un’idea, dunque, di superiorità razziale, alla quale è concessa ogni libertà a riconoscimento della sua dogmatica e congenita “egemonia”.
I dodici anni di follia tedesca di Adolf Hitler, dittatore e politico di origine austriaca, condivisero la loro violenza con molteplici altri spazi e tempi storici, caratterizzati anch’essi da una violenza volta unicamente alla creazione di dolore e senza alcun tipo di scopo, quale poteva essere la conquista di un territorio. Si tratta, dunque, di figure narcisistiche, che, nel percorso storico e culturale, lasciarono un’impronta indelebile nelle menti della generazione contemporanea e che andranno ad evolversi anche nelle memorie future.
Questo perché tali personaggi, attraverso la predicazione dei loro cosiddetti “valori” rivolti ai loro allievi facilmente influenzabili, mirarono all’eliminazione dell’integrazione tra culture e popoli differenti, instaurando così un concetto di morale ben diverso da quello che rispecchiava la volontà generale dello stato civile citato dallo scrittore francese Jean-Jacques Rousseau nelle sue opere, dove era il volere collettivo a costituire la libertà di ogni individuo.
Posso affermare, quindi, che tutti gli omicidi della storia rappresentarono il presunto diritto del popolo superiore di asservire la civiltà ritenuta invece inferiore, attraverso violenze macabre, in riferimento alle quali lo stato di degradazione in cui veniva posta la vittima, prima dell’esecuzione, placava il senso di colpa dell’uccisore stesso.
Termino così il mio scritto, lasciando nel dubbio coloro che leggeranno la mia riflessione: la violenza è generatrice di caos e rovina, nonché di perdizione…dunque la vittima è, ad ogni modo, il vinto, oppure l’uccisore incapace di provare sentimenti benevoli?
Rosa Chiellino, IV A Europeo
La zona grigia (cap II) - Comunicare (cap IV) - Violenza inutile (cap. V) - “La follia del super-uomo attraverso la forza delle parole.”
”Fotografia, dall’etimologia greca di due parole, φῶς e γράφω, che riassumono l'atto fotografico, dunque” scrivere con la luce”. La pretesa di autenticità è stata sin dall'inizio considerata come la forza e la debolezza, allo stesso momento, della fotografia. Forza, laddove l'immagine ha rappresentato il documento di autenticità che un dato fatto è successo, che una data persona è esistita, ed imprimerlo, così, nella memoria del tempo, mantenendo il ricordo forte e vivo. La storia del fotogiornalismo in Italia è anche una storia delle fotografie non fatte, dell'uso e dell'abuso della notizia e dell'immagine, della censura politica, di quel distacco rispetto all'Europa che ha portato la stampa, se non in rari casi, a trascurare la fotografia, il ricordo, la memoria. Ci si rende conto, sin da subito, che la fotografia rappresenta uno strumento di persuasione forte: temuta dai governi e il più delle volte, per questo, manipolata. Fotomontaggi ,elaborazioni, scelte editoriali (pubblicare o meno una foto, descriverla, contestualizzarla, richiedere un determinato tipo di immagini), valutazioni fotografiche in fase di scatto sono tutte occasioni suscettibili di un apporto personale, quindi soggettivo e per definizione non obiettivo. I regimi dittatoriali hanno sfruttato ogni forma di linguaggio e comunicazione per modificare la realtà da questa visione distorta di essa, crearne una nuova per indottrinare politiche nuove all’insegna della lingua dell’odio. “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà realtà” - Joseph Goebbels, Ministro della Propaganda del regime nazista. Vediamo la comunicazione in ogni sua forma, per determinare artificiosamente la propria immagine, e quella dell’ “altro”, l’alterità negativa, categoria antagonista di qualsiasi natura (razziale, politica, ideologica…), e per fabbricare utopiche idee e realtà da inculcare al popolo, innalzando il proprio essere sulla crudele torre del super-uomo. L’idea della razza-migliore che si afferma su quella inferiore… la Parola (e con essa ogni mezzo per tramandarla, visivo e non) si rivela fondamentale per affermare queste ideologie, per sedurre, influenzare il destinatario del messaggio. Stampa, fotografia, primissimi mass-media… rappresentano i primi canali di comunicazione che il nazi-fascismo sfruttò per modellare l’idea dell’ariano “prescelto”, giustificato dalla sua stessa e presunta natura perfetta nel disprezzar ed odiare il “diverso”, imperfetto, nemico, debole, inferiore sotto ogni punto di vista. Rifacendosi al mito di Nietzsche, D’annunzio (tra 1892 e 1900) elabora la teoria del superuomo e la traccia secondo punti fondamentali ed emblematici: Il superuomo (come accennato in precedenza) si eleva, distaccandosi e sovrastando l’irrilevanza di una plebe mediocre, coltiva il culto di sé stesso nella forza e nel dominio assoluto, nella violenza. È la folle presunzione di elevare sé stesso, che porta inevitabilmente al conseguente disprezzo della razza lasciata sul fondo, separata dai soli trampoli che il superuomo indossa in maniera autonoma e prescindente. Disprezzo verso la democrazia, la folla intesa come materia bruta. La violenza che ne è scaturita, dunque, è totalmente insensata, aliena da ogni logica. Il “superuomo” ha propagandato ed inculcato una sua ideologia fine a sé stessa, priva di ogni logica morale e razionale, che non si limita semplicemente al professare una sorta di nazionalismo, ma accompagna quest’ultimo ad un odio ingiustificato verso il “diverso”. Ogni forma di violenza è categoricamente sbagliata. Ma quando la violenza diventa effetto conseguente ad un esibizionismo folle ed illogico, parliamo dunque di follia omicida.
Sara Motta, IV A Europeo
Ai tempi dell'era digitale quello della comunicazione è un tema molto discusso, specialmente in rapporto alle relazioni dei giovani. Perché non riusciamo più a comunicare? Che non ci riuscissimo neanche prima dell'avvento delle nuove tecnologie? Ho tentato di dare una risposta (non univoca) nella seguente riflessione.
Ho tratto ispirazione da un grande pensatore e artista, Primo Levi (Torino, 1919-1987). Anche lui, infatti, in uno dei suoi capolavori scrive dell'importanza della comunicazione. Egli tratta ampiamente la tematica, indicandola tra le cause del genocidio, concetto sviluppatosi negli studi giuridici, storici, politici e sociologici a partire proprio dalla seconda guerra mondiale. In particolare, il riferimento è alla difficoltà di comunicazione all'interno dei lagher nazisti, di cui l'autore stesso, di origini ebraiche (ma non ebreo: «io, il non credente, e ancor meno credente dopo la stagione di Auschwitz», "I sommersi e i salvati"), fu testimone.
Di seguito il brano da cui scaturisce la mia riflessione, tratto dal IV capitolo de "I sommersi e i salvati", intitolato, per l'appunto, "Comunicare": «Il termine "incomunicabilità" non mi è mai piaciuto [...]. Nel mondo normale odierno, che abbiamo chiamato "civile" e "libero", non capita quasi mai di urtare contro una barriera linguistica totale: di trovarsi davanti ad un essere umano con cui dobbiamo assolutamente stabilire una comunicazione, pena la vita, e di non riuscirci. Secondo una teoria in voga in quegli anni, gli anni '70, e che a me pare frivola ed irritante, l' "incomunicabilità" sarebbe alla base, una condanna inserita nella condizione umana. Mi pare che questa lamentazione proceda da pigrizia mentale e la denunci; certamente la incoraggia, in un pericoloso circolo vizioso. Salvo casi di incapacità patologica, comunicare si può e si deve: è un modo utile e facile di contribuire alla pace altrui e propria, perché il silenzio, l'assenza di segnali, è a sua volta un segnale, ma ambiguo, e l'ambiguità genera inquietudine e sospetto. Rifiutare di comunicare è colpa: per la comunicazione [...] siamo biologicamente e socialmente predisposti [...]. Tutte le razze umane parlano; nessuna specie non-umana sa parlare [...]. È ovvia l'osservazione che, là dove si fa violenza all'uomo, la si fa anche al linguaggio». Il testo è estratto dal video "Primo Levi - Sommersi e salvati, cap. IV Comunicare", realizzato da HUB Scuola (https://youtu.be/78PyvsN1HM0).
Comunicare sta alla base di qualsiasi rapporto. Quanti amori muoiono perché manca la comunicazione? Il primo amore è un po' così: ci si ama finché non arriva il primo intoppo a buttare giù tutto. Non siamo in grado di assumerci le nostre responsabilità, di chiarire i nostri sentimenti, di chiedere scusa, di rincorrere e di farci acchiappare (a volte serve pure questo: mettere da parte l'orgoglio).
La comunicazione non è un processo lineare, è libera espressione. Noi esseri umani non siamo lineari. Noi siamo contraddittori. Non sempre servono le parole. Anzi, con "quelle" persone (le nostre anime gemelle, per così dire) non servono affatto. Quante cose dicono uno sguardo, un gesto, un movimento, uno schizzo, una melodia, una fotografia...
Comunicare è difficile, è vero. Non basta mettere da parte le proprie paure: una sana comunicazione è bilaterale. È un cammino da percorrere in due. Basta prendersi per mano, ma quanto è difficile sfiorarsi, toccarsi, stringersi?
Se gli ebrei e i tedeschi avessero comunicato, sarebbe cambiato qualcosa? Probabilmente sì. I rapporti si sarebbero sviluppati nell'empatia. Non avremmo tanta crudeltà da ricordare affinché non si verifichi più.
Non c'è brutalità che commetta l'essere umano non derivata da una cattiva comunicazione, in cui il carnefice volta le spalle al dolore della vittima e alla sua stessa natura umana, fondata sull'amore del prossimo, sulla pietà naturale teorizzata da Rousseau.
Milly Gaudio, IV A Europeo