PUBBLICHIAMO IL TESTO CHE SI È AGGIUDICATO IL PRIMO POSTO NELLA SELEZIONE D'ISTITUTO DELLE OLIMPIADI DI FILOSOFIA.
Cos’hanno in comune una scultura classica, una cattedrale gotica, un dipinto di Raffaello, una tragedia moderna, una poesia romantica, una melodia per pianoforte e un film d’azione?
Tutti questi elementi condividono la caratteristica sostanziale di appartenere ai diversi ambiti di un concetto che ha accompagnato da sempre l’umanità come sinonimo di espressione in continuo sviluppo: l’arte. Potremmo definire l’arte in generale come l’essenza di un determinato periodo storico, che riassume in sé la cultura e le idee dell’epoca; oppure, al livello del singolo, come la manifestazione di una particolare visione della realtà, di un’anima figlia del suo tempo o avanti ad esso. Che l’arte abbia avuto un ruolo di primo piano nella nostra storia è innegabile. A quale scopo essa debba effettivamente essere indirizzata e quale sia la funzione che bisogna attribuirle è stato da sempre oggetto di dibattito, un dibattito che ha incluso anche l’ambito filosofico e ha generato visioni contrastanti e originali. Alcuni autori hanno maggiormente contribuito a dare una forma definita a questa parola nota a tutti, ma di cui ancora non si è trovata una chiave universale per imbrigliarla, capirla fino in fondo e una volta per tutte.
Partiamo dalla Grecia antica, culla della filosofia e delle correnti di pensiero che hanno cercato di dare risposta a grandi interrogativi esistenziali, ma anche a temi più “umani” e vicini a noi come l’arte, appunto. Circa il suo significato e il valore che bisogna riconoscerle, in Platone e Aristotele si rintracciano due modelli e due punti di vista opposti concernenti diverse tematiche.
Platone è convinto che l’arte non sia altro che “copia” del mondo delle idee, dell’Iperuranio che aveva immaginato perfetto in sé stesso e insuperabile. L’arte è mera imitazione, niente di più che un tentativo futile di rappresentare una realtà che va oltre la nostra immaginazione pretendendo di raggiungerne la completezza. Per capire il pensiero di Platone dobbiamo tenere presente il suo sistema di fondo, l’idealismo che fa da pilastro portante della sua riflessione. Come le idee sono immutabili, necessarie, del tutto separate dal nostro mondo e quindi facenti parte di un altro che sfugge alla mente umana così risulta impensabile anche il solo cercare di dare loro una forma con le arti figurative. Platone scrive un dialogo, lo Ione, per una forma particolare d’arte, la poesia. In esso, per bocca di Socrate, il filosofo espone la sua teoria secondo la quale il declamare poemi epici, il comporre elegie o lo scrivere mimi non possa essere considerata un’arte vera e propria perché non derivante dall’uomo. Il poeta, dice il pensatore ateniese, è un semplice vaso vuoto la cui funzione è di mediazione tra divinità e uomo e che compone poesie mirabili solo se la divinità prende possesso di lui e lo priva della ragione.
Aristotele, nonostante sia discepolo di Platone, ritiene che l’arte, nel suo caso il teatro, giochi un ruolo fondamentale nell’ambito socio-emotivo del pubblico. Ricordo che nella Grecia antica la tragedia non era considerata solo intrattenimento ma rifletteva una comunità, quella della polis, i suoi valori, ideologie e il senso di appartenenza ad essa. La Poetica spiega, in linea con il contesto culturale dell’epoca, quali siano le caratteristiche che un’opera debba possedere per poter essere apprezzata (concetti che sopravviveranno fino all’Ottocento prima che Manzoni scrivesse le sue due opere drammatiche) e i suoi effetti sul pubblico. La parola chiave che Aristotele usa è catarsi: ma quando si verifica tale passaggio? Per il filosofo avviene durante tutta la durata della rappresentazione: il singolo spettatore è animato da sentimenti comuni con il pubblico intero, si commuove nel momento in cui gli attori soffrono, è emozionato quando ci sono scene cruciali e teso quando i personaggi prendono decisioni o elaborano piani. La catarsi agisce sull’animo del pubblico e, facendo provare sentimenti e sensazioni tra di loro contrastanti, lo purifica tramite la messa in scena di azioni crudeli o eroiche.
Le idee di Platone e Aristotele vengono tramandate nei secoli successivi, originando accese discussioni tra gli assertori dell’empirismo e i sostenitori dell’idealismo. Di quest’ultima corrente è convinto seguace un genio del nostro Rinascimento, Michelangelo Buonarroti, conosciuto senza dubbio più per i suoi capolavori senza tempo che per il suo pensiero neoplatonico. Influenzato dalle idee dell’epoca, in particolare da Ficino, Michelangelo rielabora la dottrina delle idee alla luce della sua professione, l’artista. E così la scultura, suo ambito specialistico, assume il significato di “arte del levare” e non dell’aggiungere. L’opera finita è in sé già presente nella materia prima, il marmo. Spetta allo scultore farla emergere dalla prigione in cui è racchiusa, liberarla dalle sue forme in eccesso, levigarla secondo un ideale di armonia e compostezza. La scultura diventa simbolo di un’umanità che cerca di avvicinarsi a Dio e che, nonostante la sua finitezza ed imperfezione, lotta con fervore eroico per raggiungere la bellezza di un altro mondo. È in questa chiave che vanno letti ad esempio i Prigioni della Tomba di Giulio II.
Un’altra lettura interessante e del tutto nuova dell’arte si può trovare anche nel Settecento e nell'Ottocento, secoli “l’un contro l’altro armati”, l’Illuminismo e l’Idealismo tedesco, le età di Immanuel Kant e Friedrich Schelling.
Kant espone la sua visione del bello in generale nella Critica della capacità di giudizio, un saggio del 1790 che si presenta come analisi dell’estetica e della sua funzione. Il filosofo prussiano pone l’artista non più in una prospettiva di sottomissione alla divinità, ma gli conferisce un ruolo attivo nel processo di creazione dell’opera d’arte. In particolare, egli si propone come messaggero tramite i suoi lavori di un’idea, un concetto, un modo di pensare e così via. Inoltre, per Kant, l’”apprendistato” che l’artista ha seguito per diventare tale deve essere rimodellato per dare vita ad un’arte nuova, originale, il “genio” differente da individuo a individuo. I concetti che si possono esprimere tramite le opere prendono il nome di “idee estetiche”, rintracciabili in soluzioni che l’artista sceglie di inserire per comunicare meglio il suo messaggio (esempio per tutti è La libertà che guida il popolo di Delacroix). Se nelle opere è poi raffigurata un’immagine che susciti in noi contemporaneamente attrazione e paura allora ci troveremo di fronte al sublime, sensazione che svela tratti di quel mondo noumenico inaccessibile all’intelletto.
Schelling, filosofo idealista del primo Ottocento, considera l’arte come una delle più alte forme di conoscenza che aiutano l’uomo a comprendere meglio la struttura del mondo. Ricordandoci della duplice faccia del reale, composto da libertà e necessità, da intelletto e natura, l’arte riassume in essa questa dicotomia di fondo, ponendo nell’artista il soggetto attivo e nell’opera la materia passiva cui dare forma. Ritorna la concezione di genio kantiano, stavolta con la funzione quasi platonica di tramite tra divino e umano, non più contenitore vuoto e strumento di conoscenza, ma egli stesso artefice con la sua bravura e dispensatore di sapienza. Per questo motivo Schelling definisce l’arte “l’organo della filosofia”.
Per concludere, l’arco di tempo prescelto mostra come una tematica affascinante e sfuggente come l’arte abbia dato origine ad una così grande e duratura meditazione. Da imitazione si è considerata aspirazione all’infinito, messaggio di verità e di idee. L’arte, nella mia opinione, in realtà assume tutte queste valenze e non una in particolare: è elevazione dell’animo, espressione di una visione del mondo, condivisione di un parere, esternazione dei moti della nostra interiorità, sfogo del pennello della nostra immaginazione su un supporto bianco e non solo. Con l’arte si possono attuare, insomma, numerosi processi creativi che portano alla realizzazione di opere emozionanti e utili, di concretizzazione di opinioni e di idee. A noi sta la scelta di volerla intendere come fine a sé stessa o di diventare tutt’uno con essa, dialogando con l’opera e ponendoci in una condizione al di là del tempo e dello spazio, come affermava Schopenhauer, per acquisire la conoscenza. Credo che l’arte, alla fine, sia questo: una summa di intenti che diventano realtà grazie all’opera del genio o più semplicemente di un individuo che abbia fatto germogliare in sé il seme di un qualcosa che ci appartiene e che, sebbene indefinito e mutevole, sentiamo e sentiremo sempre come nostro.
SIMONE CATIZONE, classe V E