testata grande2

VOCE INIMITABILE DEL SENTIRE UMANO

440px Bust Sappho Musei Capitolini MC1164

L’arte dell’incomparabile Saffo non consiste nella capacità di adattare le sue creazioni ad ogni evento: ogni aspetto singolo della realtà è un percorso per investigare dentro di sé e si prende in considerazione la dimensione psichica del sentimento umano. Pertanto ciò che si perde in estensione, lo si acquista in profondità.

La scoperta archilochea dell’autonomia individuale si sviluppa con Saffo nella scoperta dell’assoluta unicità dell’essere umano. Felicità e tormento le appartengono in modo esclusivo.

“Saffo la bella, Saffo la pura, dal riso di miele, dal crine di viola”, come la definisce Alceo, è la prima poetessa europea. Perché, dunque, proprio una donna tratta un tema quale l’amore?

La donna è legata ai cicli della riproduzione e alla verità della natura, di cui è essenziale il mistero dell’attrazione amorosa. In Grecia la donna era esclusa sia dalle attività belliche,  sia da quelle politiche ed economiche, motivo per il quale l’attenzione per la vita interiore era più intensa.

All’interno della poesia saffica si può cogliere una perfetta integrazione tra intenzione artistica e densità emotiva e concettuale. Saffo è travagliata da un amore non corrisposto e descrive i sintomi dell’amore nelle sue varie e molteplici forme, sia fisici che psicologici. 

Ella nel frammento n 31 V dirà :

«Pari agli dèi mi appare lui, quell'uomo

che ti siede davanti e da vicino

ti ascolta: dolce suona la tua voce

e il tuo sorriso

accende il desiderio. E questo il cuore

mi fa scoppiare in petto: se ti guardo

per un istante, non mi esce un solo

filo di voce,

ma la lingua è spezzata, scorre esile

sotto la pelle subito una fiamma,

non vedo più con gli occhi, mi rimbombano

forte le orecchie,

e mi inonda un sudore freddo, un tremito 

mi scuote tutta, e sono anche più pallida

dell'erba, e sento che non è lontana

per me la morte.

Ma tutto si sopporta, poiché …»

In quest’ode l’amore viene inteso come passione struggente, che induce alla follia, ma che è sublimato nell’estasi dell’ammirazione. L’ amore come qualcosa  << che scuote le membra>>, sarà ripreso da Mimnermo, Archiloco e Ibico, ma anche da Apollonio Rodio che nelle sue Argonautiche descrive l'incontro di Medea con Giasone in modo simile al turbamento amoroso descritto da Saffo:

Il cuore le cadde dal petto, e gli occhi nell'istante

le si annebbiarono, e un caldo rossore le prese le guance:

più non aveva la forza di muovere indietro né avanti

le ginocchia, ma al suolo piantati restavano i piedi.

Nel mondo latino Catullo rivive e rivisita, come omaggio saffico, la cosiddetta ode del sublime o della gelosia secondo una sensibilità chiaramente romana e maschile, ma, al contempo, ripropone  nel carme 85, in maniera minuziosa e perfetta, la disperazione dell’amore:

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.

Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Dunque Catullo da un lato prova rancore per i continui tradimenti di Lesbia, dall’altro nutre un profondo desiderio erotico, in pratica l’amore è visto come una malattia. Anche nel carme 8, egli si invita ad abbandonare ad un amore forte e folle. La sintomatologia è quella saffica, ma c’è anche la sublimazione etica ed estetica dell’amato, poiché Catullo sogna un amore puro e fedele, ma fuori dal matrimonio:

Povero Catullo, smettila di illuderti! 

Ciò che è perso - e lo sai - è perso : ammettilo. 

Giorni di luce i tuoi, un lampo lontano, 

quando correvi dove la tua fanciulla ti chiamava, 

lei amata come nessuna sarà mai. 

Quanta allegria, allora : quanti giochi

volevi, e lei accettava. 

Davvero un lampo lontano, quei giorni. 

Ora non vuole più : e tu devi accettare. 

Non seguirla, se fugge, e non chiuderti alla vita : 

resisti, con tutte le tue forze. 

Addio, fanciulla. Catullo è forte : 

non verrà a cercarti, non ti pregherà , se tu non vuoi. 

Ma tu, senza le sue preghiere, soffrirai. 

Ah, infelice, che vita ti rimane? 

Chi ti vorrà ? A chi sembrerai bella? 

Chi amerai? Chi ti dirà : " Sei mia! " ? 

Chi bacerai? A chi morderai le labbra? 

Ma tu, Catullo, non cedere, resisti

Qualche eco dell'ode di Saffo sembra esserci anche nell’Eneide, in particolare nel passo in cui Enea racconta a Didone l'incontro con lo spirito di Polidoro, uno dei figli di Priamo:

«[...] Un freddo brivido

mi scuote le membra, e il sangue si gela per il terrore.

[...] Allora, oppresso la mente dubbiosa dall'orrore,

stupii, si drizzarono i capelli, e la voce si arrestò nella gola.»

Nella seconda metà del 1800, Charles Baudelaire, uno dei cosiddetti poeti maledetti , descrive con grande intensità la violenza dell’amore e compone una poesia intitolata L’amore e il cranio, inclusa nella sua opera Les fleurs du mal. Egli fondamentalmente dice che l’amore domina l’uomo e per il poeta incombe fisicamente sul suo cranio. L’amore disperde le illusioni degli uomini, paragonate a sferiche bolle, sino al cielo. Egli descrive il cuore debole, aggiogato, che si rompe, e il cranio vorrebbe porre fine a questo gioco crudele mediante le bolle, che poi volano in cielo e consumano la vita del poeta Ritroviamo nuovamente il topos saffico dell’amore come malattia e questa non è una coincidenza, proprio perché è espressamente dichiarata: Baudelaire presenta Saffo e la sua morte come alter ego della sua esistenza  e del suo modo di amare così trasgressivo.

L’amour et le craine

Sopra il cranio dell’Umanità siede

Amore. E lì, assiso

come sul trono, lui, profano, ride

d’uno sfrontato riso,

ride e soffia bollicine rotonde

che si levano in alto

come volessero approdare a mondi

sotto celesti volte.

Il globo fragile, luminoso,

si slancia con veemenza,

vomita l’anima leggera esplosa

come aurata parvenza.

A ogni bolla con lamentosa voce

io sento il cranio dire:

questo gioco ridicolo e feroce

quando potrà finire?

Perché quello che la sua bocca espelle,

crudele, e in aria spande,

è, o mostro assassino, il mio cervello,

la mia anima, il mio sangue.

                                                                                                                            Francesca Carbone, III A Quadriennale

Articolo inviato dal Prof. Flavio Nimpo