Nel luglio del 2017, la società teatrale dell'università di Cambridge ha per la prima volta messo in scena il musical Six. Scritto da altri due studenti di Cambridge per non pagare i diritti di musical già esistenti e per evitare di studiare per i loro esami finali, questo musical è il più recente di un sottogenere interessante: musical a sfondo storico con stili di musica piuttosto moderni.
Six ci riporta nel primo Cinquecento e ce lo racconta dagli occhi di sei personaggi che hanno poco in comune se non il fatto che hanno tutte sposato Enrico VII. Nella finzione del musical queste donne sono in qualche modo arrivate nel giorno d'oggi e hanno formato una band. La trama dello spettacolo è semplice: le sei ex-mogli, durante una data del loro tour devono decidere chi è quella che ha passato il peggior tempo quando era in vita, la vincitrice sarà la cantante solista della loro band. Ognuna di loro canta una canzone (ispirata dalle cantanti più conosciute di questo periodo: Beyoncé, Lily Allen, Adele, Nicky Minaj, Ariana Grande e Emeli Sandè) per raccontare la sua vita.
I due giovanissimi, a malapena ventenni, scrittori dello show che in due anni è arrivato sia sulla West End sia a Broadway, pur non essendo storici, sono riusciti a ridare umanità a personaggi spesso ricordati solo come una parola in un ritornello semplicistico: ripudiata, decapitata, morta, ripudiata, decapitata, sopravvissuta. Anche se per solo settantacinque minuti, queste regine ritornano ad essere molto più dello stereotipo che gli era stato assegnato dagli storici. Non abbiamo la donna tradita, la tentatrice, la donna buona, la brutta sorella, la ragazza cattiva o la figura materna, abbiamo Caterina d'Aragona, Anna Bolena, Jane Seymour, Anna di Cleves, Caterina Howard e Caterina Parr.
Ma com’è possibile che queste donne siano passate alla storia senza che nessuno le ricordi davvero? Com’è possibile che la storia ricordi una ragazzina, che non poteva avere più di ventun anni il giorno della sua morte, come una poco di buono? Com’è possibile che la storia sia dalla parte di colui che ha fatto uccidere due delle sue mogli?
Una risposta è che le loro storie, specialmente di quelle che persero il favore del re, ci sono raccontate in primis da contemporanei sotto il controllo diretto del loro carnefice. È semplice pensare ad una persona come uno zerbino nei confronti del marito, se nessuno dice mai altro su di lei se non il fatto che fosse “l’unica che Enrico ebbe mai amato”.
La risposta più ovvia, invece, è che è facile ricordare solo com’è finita la loro storia col re d’Inghilterra e perché. Non hanno avuto un segno estremamente importante, se non le prime due, che, volenti o nolenti, hanno messo in moto il processo di protestentizzazione del Regno Unito, per cui non è necessario sapere cosa pensavano e sentivano. È a malapena richiesto sapere il loro nome.
Qualunque sia la vera ragione, dovremmo iniziare a ricordare queste donne per quello che hanno fatto e per le loro motivazioni. E iniziare a pensare ai personaggi che hanno avuto questo trattamento. Nessuna persona abusata, maltrattata, o uccisa, merita di passare alla storia come una bigotta, una manipolatrice, una sottomessa, un’arrampicatrice sociale, una donna promiscua o una badante solo per via del loro istinto di sopravvivenza.
MARIA SOLE NARDELLI, III B CAM