IL SENSO DI UN VIAGGIO NEI LUOGHI REMOTI ED ESTREMI DELL'ANIMO UMANO
L’atteso non si compie, all’inatteso un dio apre una via…
Euripide
Erano spine che entravano nell'anima
e diventavano fiori.
Alda Merini
…Sciarade infinite,
infiniti enigmi,
una così devastante arsura,
un tremito da far paura
che mi abita il cuore
Alda Merini
Le cerulee Rupi Simplegadi sono l’essenza di una vicenda narrata tra epica e tragedia lungo il filo dipanato dal Mito e, poi, tessuto da una composizione registica, ispirata dal destino di una donna, che è “nome parlante”, personaggio fatale per le sorti di uomini ed eventi.
Da queste rocce, note anche come Isole Cianee e poste all’ingresso del Ponto Eusino, arriva il senso di un varco, della vita intesa come scelta, rischio, passaggio, sfida: un “oltre” in cui si rispecchia il mistero cosmico che avvolge l’uomo. La nave Argo si carica di nuovi significati, di rimandi reconditi, di segreti destinati a evolversi in trama e ordito abilmente tessuti e, infine, in atti estremi, nel compimento assoluto e supremo di ciò che è stato concepito e alimentato nel velo avvolgente della “metis”, quell’ingegno multiforme che medita ed escogita. È l’intelletto di Medea, che ha suscitato timore e rispetto nella Colchide e, parimenti, odio e ostilità in terra di Grecia, perché la conoscenza incute paura in chi la reputa forza che rende liberi.
Per una lungimirante visione, concepita e condivisa in fase di composizione del testo teatrale, si può assistere, per la prima volta, all’evoluzione psicologica della figura di Medea, dal suo stato di fanciulla, che vive la sua condizione di principessa e maga, non ancora vittima sacrificale sull’altare del dio alato, la “dolceamara creatura”, a quello di regina e sposa ripudiata, tramutatasi in Scilla e leonessa, secondo le parole di Giasone, e divenuta eccesso implacabile in fattezze femminili: quello stesso che fa pronunciare maledizioni contro i figli, il loro padre, la casa.
Tale “alienata” condizione è di un’infelice e sventurata, la quale non riesce a praticare la moderazione che <<è di gran lunga la cosa migliore per gli uomini>>. Infatti <<l’eccesso non arreca vantaggi ai mortali/ ma procura gravi sciagure>>.
Il coro ricorda a Medea che un dio l’ha spinta in un mare di dolori, ma non per questo acconsente al suo dissennato proposito. Ella stessa dice di essere <<in molte cose diversa dagli altri>> e il coro aggiunge, poco dopo, che <<gli amori, quando troppo eccedono, non portano onore né virtù agli uomini>>. Più in là il medesimo coro domanda a Medea se sia di pietra o di ferro, visto che, ostinata, intende perseguire la sua vendetta sanguinaria.
Ella è <<oppressa dalla sventura>>, sa <<quel che sta per fare, ma più forte della sua volontà è la passione, causa di mali grandissimi per gli uomini>>. Quando il cuore le manca, al pensiero di privarsi dei figli, Medea dice a se stessa che bisogna trovare la forza. Il suo amore di madre deve soccombere dinanzi al piano meditato e tessuto come ragnatela: il ripudio del marito e le offese ricevute dagli abitanti di Corinto non possono farla vacillare. Il sacrificio dei figli è il solo atto estremo in grado di colpire Giasone nel cuore <<come si deve>> e di schiantarlo.
Con lui saranno devastati anche i suoi alleati corinzi. Il pensiero lucidamente delirante, che può condurla “oltre” e confortarla, è che la morte sottrarrà gli amati figli ai nemici e li ricongiungerà per sempre a lei in una dimensione sospesa, in attesa che ella stessa li raggiunga al termine del suo vissuto terreno, attraverso un cammino ai cui lati si estendono distese di asfodeli e di mirto. Collaborare con Antonello Lombardo e con Marta Leonetti ha significato per me, ancora una volta, imparare, formarmi, arricchirmi, rivolgere lo sguardo a orizzonti che hanno svelato tutto quello che sta nella linea sottile di confine tra detto e non detto, “luogo” a me caro, poiché nell’ineffabile amo cogliere l’essenza e il senso di ciò che si disvela.
Sarà indelebile il ricordo delle scelte registiche con cui Antonello Lombardo ha inteso racchiudere l’intera vicenda in un cerchio perfetto dai prodromi del mito degli Argonauti e di Medea al compimento estremo. Egli ci ha invitato a riflettere sulla condizione dell’uomo, di cui le gabbie hanno rappresentato simbolo e correlativo oggettivo, al contempo; ha fortemente voluto una scenografia e luci che si legassero al filo conduttore della vicenda e in quella nave emblematica ha risposto quei segreti, che, pian piano, possono essere svelati, se si intende andare fino in fondo. Ricorderò la cura profusa da Marta Leonetti per i testi a partire dalle Argonautiche e per il greco antico, che ella sa pronunciare con una proprietà e una musicalità tali da rappresentare una sua prerogativa emersa già negli altri momenti interpretativi risalenti alle Baccanti, all’Edipo e all’Orestea. Porterò scolpite nel cuore le emozioni che gli attori, i nostri straordinari studenti, hanno saputo donarci con la loro potente vis recitativa, carica di un’intensa e struggente immedesimazione. Come dipinti raccolti nella pinacoteca dell’anima, custodirò l’immagine dell’abbraccio di Medea ed Egeo, connubio di due solitudini che tentano di colmare i vuoti di assenze e abbandoni; serberò come intensi ricordi il tratto singolare ed eccentrico del re Eeta, la voce veneranda di Fineo, l’ardore del giovane Giasone e degli Argonauti, la ieraticità delle dee, la verve “folle” e fanciulla di Eros, l’armonia e la compattezza del coro, le sprezzanti e altere figure di Creonte e Giasone, ormai ambizioso uomo maturo, i commoventi figli di Medea, capaci di toccare le corde del cuore, l’icastico messaggero dalla traboccante potenza verbale, la suadente e seducente Issipile, la composta e amaramente consapevole nutrice e, infine, ma non certo ultima la “multiforme” Medea, la barbara dal portamento fiero, che incede, prima, nella sua veste di narratrice e di giovane principessa e, poi, in quella di sposa ripudiata, entrambe intrise della sua essenza e pregne di quanto medita e compie. Sarà indimenticabile lo svolazzare della stoffa nera del suo abito, che, pur tacito, è parso dotato di parola nel suo fruscio e ha trovato rispondenza nella chioma fluente, le cui ciocche ondulate sono assimilabili a rivoli di sé e dei suoi stati d’animo, confluiti nel momento conclusivo della rappresentazione, quello che riconoscente considero caro omaggio del regista, che ha inteso dare vita a una “Medea diversa”, scritta da me anni fa in pagine, a cui Sara Gedeone ha infuso anima, donandomi sbigottimento del cuore.
L’addio di Medea a Giasone, sfumando, si è chiuso con lo straziante “no” urlato da chi era eroe (lo è mai stato?) e, poi, è divenuto uomo devastato dal dolore e sconfitto e, poco prima, così si è espresso: << Passato... e per sempre. È il tempo della notte, di incanti e sortilegi. Ora tutto accade al limpido raggio della luce. Il bene, il male. Ed è giusto. Sei stata tu? Sono stato io? Non so. È successo…>>. La sua mano, tesa verso il sandalo ricomparso in scena, dopo la sua prima apparizione ad opera di Medea, non ha potuto afferrarlo, dal momento che il braccio, impedito dalla gabbia, in cui Giasone è imprigionato, non è arrivato al cosiddetto oggetto del desiderio e fonte di timore per il re Pelia, il quale, a suo tempo, aveva appreso da un oracolo <<che l’avrebbe atteso una sorte atroce: chi tra i suoi sudditi avesse visto venire calzato di un solo sandalo, quello con le sue trame gli avrebbe dato la morte>>. Poco dopo, infatti, Giasone, intento a mirare l’Anauro, avrebbe tratto dal fango un sandalo, lasciando l’altro in fondo all’acqua.
Il cerchio, ormai, è chiuso: da un lato Medea prende il largo sulla nave Argo, quella depositaria di segreti; dall’altro Giasone è prigioniero di se stesso, destinato a un futuro gravato dal peso di quanto accaduto e ossessionato da fantasmi e rimpianti.
La scena emblematica e sospesa nella dimensione atemporale, che può appartenere solo al Mito, rimanda a riflessioni pronte a condurre lontano da quel palcoscenico, che è stato animato dalla professionalità di coloro i quali hanno provveduto al disegno di luci pronte a tradursi in voce cromatica; dalla scenografia di Gianluca Salamone, che ha profuso il senso del lungo filo narrativo, racchiudendolo nei due poli rappresentati dalla splendida nave e dal maestoso palazzo; e, ancora, dall’eloquente presenza scenica dei costumi realizzati da Merusca Staropoli e del trucco e parrucco sapientemente curato dallo staff di Paint-Up Make-Up Academy.
Tutto, dunque, si racchiude nel mio animo, che, seppur “distratto” e provato da eventi e percorsi inalienabili, ha continuato a tenere in sé e per sé la pregnanza di questa quinta esperienza teatrale, che, pur vissuta dietro le quinte e nel proprio “cantuccio”, è stata vissuta al pari delle altre con l’intento di percorrere i sentieri capaci di far esplorare quel mistero, non sempre perscrutabile, che è l’animo umano, non a caso definito da Sofocle “straordinaria creatura” e microcosmo palpitante per il quale Alda Merini ha scritto che <<ognuno di noi ha vissuto qualcosa che l'ha cambiato per sempre>> e si procede con passi <<che non conoscono dimora e vanno oltre ogni montagna>>.
Flavio Nimpo, docente del Liceo Telesio