L’ORESTEA SECONDO ANTONELLO LOMBARDO.
L’Oriente è l’attesa…Una vedetta volge lo sguardo insaziabile verso l’orizzonte, scruta nelle tenebre e spera di scorgere la sospirata fiamma. Il bagliore del fuoco, destinato a recare da Troia notizie sulla bramata vittoria, è l’alfa e l’omega di questa vicenda, di cui Clitennestra, <<donna con ambizioni da uomo>> rappresenta quel ragno che fila paziente,
tesse e trama la ragnatela, nella quale ella stessa sarà intrappolata dal filo implacabile di Oreste, suo figlio.
L’Orestea è la trilogia che restituisce il senso del teatro eschileo: solennità, monumentalità, atmosfera di arcana sacralità. La regia di Antonello Lombardo ne ha esaltato tutta la sua teatralità, raccogliendo l’essenza intensa e vibrante dell’agire umano alle prese con l’apprendimento scaturito dal dolore, con la giustizia divina, che si oppone allo spirito vendicativo dell’uomo, spezzando le catene della colpa che genera colpa e del sangue che chiama sangue. Ancora una volta il regista ha consentito ai suoi compagni di viaggio, alunni e colleghi coinvolti, di vivere una terza indimenticabile esperienza, che ha rappresentato per ciascuno un percorso interiore capace di lasciare una traccia e segni indelebili. È stato condiviso un lavoro di ricerca, di analisi, di immedesimazione nei personaggi, che ha cambiato o ha smosso qualcosa in ognuno.
Le note di regia hanno efficacemente delineato il cammino individuale e corale, che, passo dopo passo, ha ridato vita sulla scena agli eventi delle tre tappe tragiche: Agamennone, Coefore, Eumenidi. Tutto si è consumato in un atto unico palpitante di costante tensione e il pathos ha generato quel misto di pietà e orrore, che sono elementi essenziali, come Aristotele ricorda nella sua Poetica, per partecipare attivamente e vivere la propria catarsi.
Antonello Lombardo ha racchiuso il dramma degli Atridi nell’immagine emblematica di una tela di ragno, i cui fili sono espressione di quelle trame che rimandano a premeditazione, inganno, sopraffazione, atti estremi necessariamente legati a conseguenze inalienabili. Nella sua visione registica l’Orestea è una sorta di attesa incessante e di ciclo che non si chiude mai: un eterno ritorno che si traduce in una conclusione in continua tensione, in perenne sospensione.
Fin dalla situazione iniziale si attende e si coglie il tempo del richiamo e del ritorno: è il tempo sospeso, in cui le parole sono trame tessute con fili di ragnatele ideali, misteri racchiusi che attendono di essere svelati. Solo chi sa udire e vedere “oltre” ne avverte in anticipo il senso arcano.
Il ritmo di tamburi lontani accompagna il dipanarsi di un’intricata matassa di eventi destinata a divenire tappeto di sangue purpureo, frutto di atti cruenti, generati da una catena di colpe, che pagheranno il loro fio ineluttabile. Lo sciabordio dell’acqua di mare nella notte profonda evoca la voce del silenzio, mentre il ritmo cadenzato di passi scandisce il tempo dell’attesa…
La nenia di note vocali remote, eppur palpitanti ed evocative, culla gli animi degli Argivi dormienti e di coloro che vegliano…Lo sguardo è rivolto all’orizzonte: il petto trepida e desidera ardentemente scorgere segnali di luce. I tamburi lontani riecheggiano come sincronico palpito del cuore. Nel buio i riflessi argentei della distesa marina sono colore della risacca e gli occhi cercano spasmodici il brillare di astri lucenti, quale fulgido seguito della bianca luna, rorida signora della notte. È il preludio del dipanarsi di fili, che sono trama fatale di eventi destinati a cambiare le sorti di città e uomini. Gli dei sono arbitri, giudici, patroni, spettatori, agenti e soggetti di un’intricata tela che sa rendersi rete. Si avvicendano le azioni e i destini di uomini e donne: Agamennone, Clitennestra, Oreste sono onda incessante di colpa che genera colpa, di sangue che chiama sangue e fra loro Cassandra è isola, monade, assolo di canto che è monito per l’uomo di ogni tempo, verità che si perpetua di generazione in generazione. Ella è linea di confine tra Finito ed Infinito, è porta che avvia verso l’oltre, è varco che consente di scorgere il “qui” e “l’altrove”.
Sembra che la vedetta, posta sul tetto degli Atridi ad Argo, lasci l’eco delle sue parole: << Così comanda il cuore trepidante di una donna con ambizioni da uomo>>…E, intanto, le coefore avanzano in processione verso la tomba di Agamennone e lamentano: <<Lacrime. Da sempre il mio cuore si nutre di lacrime>>. Le parole sgorgano dal petto come lacrime stillate dall’anima straziata. Le lacrime diventano acque lustrali, si rendono catarsi, scorrono come flusso inarrestabile di ruscello. Il loro muto fluire, che riga senza posa le gote fino a scavare solchi, è voce che urla nel silenzio. Le lacrime sono richiamo per chi è assente, è struggente invocazione, straziante supplica a non essere lasciati in solitudine. La lacrima racchiude nella sua essenza liquida il racconto di una vita e insieme alle altre forma lago d’anima, senza posa e senza pace. Una dopo l’altra, esse si versano come offerta di sé, perché resti il senso della loro stilla, piccola goccia nell’universo dell’umanità, ma preziosa, unica e inimitabile presenza per chi resta e per chi, pur oltre, si volge e annulla le distanze. Solenni si elevano le mani del corifeo, che dice: << Dalla casa, mandato, io venni, per portare le offerte con lacrime e con mani pietose>>. L’atmosfera è pregna di un’aura sospesa e di commozione, l’abbraccio di Oreste ed Elettra racchiude un mondo di affetti protetto, prima che il sangue ritorni e scateni le Erinni. Queste sono la fiamma vivente del terzo momento, quello in cui il manto della giustizia avvolge prima Delfi, presso il santuario di Apollo, e, poi, Atene, dove la dea dalla figura femminile, in cui rifulge <<il massimo della parte maschile che è in lei>>, per citare le parole del regista, è un ideale e prolettico deus ex machina euripideo. Atena istituisce un tribunale, stabilisce <<leggi che durino per sempre e che consentano agli uomini di giudicare rettamente>>. Colei che <<non fu allevata nel grembo materno>> ascolta le ragioni addotte dalle Erinni scatenate e guidate da una corifea, che tiene testa alla divinità delfica, la quale, a sua volta, espone le sue a difesa del protetto, da lui purificato nel suo tempio e ora difeso, poiché il dio si sente responsabile di Oreste macchiato del sangue materno. E così Apollo invita Atena a decidere sulla causa tanto controversa con saggezza.
La dea sentenzia a favore del giovane argivo, ma, al contempo, intende placare le indomabili Erinni, che si sentono defraudate dei loro diritti e della loro autorevolezza, secondo antiche e sagge leggi.
A loro è offerta la possibilità di dare beni e riceverne, di essere venerate e onorate in terra attica, la regione più cara agli dei. Le Erinni acconsentono e bianche vesti le rendono Eumenidi: le mani della corifea segnano il passaggio con il loro armonico movimento pari a una danza. È catarsi, è approdo alla luce dalla notte. Sacralità di gesti e passi solenni sono preludio di compimento supremo. Infine la ciclicità dell’eterno ritorno. Di nuovo l’inizio di tutto. Tutto si scruta, tutto si cerca, tutto arriva, tutto è divenire, tutto è successione di accadimenti, che volgono all’epilogo, preludio dell’ennesimo palesarsi dell’esordio. La parole della vedetta: <<La città di Troia è presa>>, pronunciate all’inizio della trilogia, quando era atteso con trepidazione il segnale di un fiaccola, il brillio di una luce, messaggera di buone notizie, sono la chiusa ad anello, che racchiude il senso della vicenda in chiave universale: l’inestricabile serie di conflitti interiori ed esteriori dell’uomo. Significativo il messaggio che in coro dal palco arriva al pubblico: <<Lo strepito della guerra civile non risuoni mai in questo paese. Tutti, invece, diano bene in cambio di bene. Questo è, di molti mali dell’uomo, l’unico rimedio>>.
Le luci si spengono e cala il sipario, ma…in lontananza si scorge ancora il bagliore di una fiamma…Forse è l’ennesimo inizio…
Flavio Nimpo