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COSA SI NASCONDE DIETRO L'INDUSTRIA CHE SOLLETICA LA NOSTRA VANITA'?

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In ogni momento comunichiamo qualcosa attraverso il nostro modo di vestire, siamo un manifesto vivente. Impressionare, attrarre, protestare, rivelare: sono le dichiarazioni che urliamo al mondo modellando la nostra immagine con versatili combinazioni di tessuti e colori.

Ci è data la possibilità di reinventarci ogni giorno, nuove collezioni affiorano nelle vetrine ogni due settimane,;ma chi è a tenere i fili del veloce gioco della moda?

In contrasto con l’ostentata appariscenza di questo settore infatti, molti aspetti sono poco trasparenti… Le variopinte e soffici fibre, nostra seconda pelle, però spesso catturano la nostra attenzione al punto da tralasciare ogni legittimo interrogativo su come quegli indumenti accaparrati per pochi euro siano veramente prodotti o quale ne sia il costo in termini umani.

Sono questi i giorni in cui, sopravvissuti ai vorticosi "saldi", bisogna affrontare la realtà nascosta dietro gli oscuri meccanismi dettati dal dispotico ed opulento Impero della Moda, nello specifico, il terzo più inquinante su questa Terra. Quegli stessi meccanismi ben visibili ai nostri occhi, ma abilmente occultati dagli abbaglianti prezzi convenienti che ne mascherano i retroscena.

Basta pensare ai marchi nella nostra città, Zara, Pull &Bear, Stradivarius (tutti appartenenti al quinto uomo più ricco al mondo, Amacio Ortega) che, come anche H&M o Primark, a discapito di vite umane, disastri ambientali e specie animali, accrescono i propri profitti grazie ai bassissimi costi di produzione resi possibili dalla manifattura delocalizzata in paesi in via di sviluppo come India, Pakistan, Cambogia, Bangladesh (dove ad esempio il compenso minimo giornaliero destinato ai lavoratori in campo tessile è di 2,15 euro al giorno) ed altri ancora. Dovendo attenersi a costi di produzione sempre più bassi e competitivi, le aziende tendono a ridurre le spese sulle misure di sicurezza a tutela dei lavoratori (che spesso sono minori o donne prive di rappresentanza sindacale), determinando così tragedie quali il crollo dello stabilimento Rana Plaza del 24 Aprile 2013 in cui, in meno di 90 secondi morirono 1134 persone.

1134 persone. Le stesse che hanno prodotto quella bella maglia a 9,99 euro che trovi nella vetrine sul corso.                

                                                                                                                                                                                                        

Con quale valuta dovremo dunque pagare la perdita di queste vite? Vale quella maglia i 2.7 litri d’acqua usati per produrla, o le sostanze chimiche (presenti sul cotone) rilasciate in fiumi e mari insieme ai coloranti?                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 Questa è la legge dettata dalla Fast Fashion, una legge che non dà nulla in cambio se non un ammasso di fibre sintetiche, poco resistenti, che presto giaceranno inutilizzate, deformi, sul fondo di un armadio.

Ad alcuni però rimane  anche un forte senso di colpa: quell’insofferenza generata da ogni verità comunemente accettata e allo stesso tempo ignorata, ha portato all’ideazione di un nuovo modo per rapportarsi alla moda senza prendere parte ai suddetti delitti. Dopo la catastrofe del 2013 si è infatti iniziato a maturare un interesse più consapevole riguardo al rapporto diretto fra deflazione ed eticità, tale da accendere negli animi  e nelle menti  la speranza di un cambiamento. Nel 2014  nasce ‘Fashion Revolution’, un movimento attivo in tutto il mondo che opera per sostanziare le aspirazioni di molti: le aziende devono essere più trasparenti nel rispetto dei diritti umani e delle norme ambientali;  gli acquirenti, invece, impegnarsi a valorizzare l’unicità di un numero ristretto di capi, quello veramente necessario, fino a riscoprire uno stile che riesca a comunicare qualcosa di unico.

Questa militanza globale dimostra che un’inversione di marcia è possibile: credendo nel potenziale delle soluzioni creative e sostenibili, l’ingiusto ed insostenibile sistema della Moda Veloce può essere rivoluzionato. Già  molti stilisti ed aziende (Fair Trade) hanno scelto di adattarsi alle esigenze ambientali del nostro secolo e supportare l’emancipazione femminile, creando uno stile il cui processo creativo non è condizionato dal puro guadagno. Piattaforme online come Etsy semplificano e promuovono  la diffusione di artigianato e Made in Italy; anche Depop offre in alternativa capi di seconda mano (spesso messi in vendita anche da note celebrità); inoltre affiorano numerosissimi negozi vintage e boutique che scelgono di enfatizzare la qualità di contro alle massive quantità...

Per concludere non è da ignorare il più semplice dei gesti, ovvero il rifiuto di ciò che non aggiunge valore alla nostra vita, attraverso due immediati interrogativi: “Mi fa sentire bene?” e “Lo indosserò più di 30 volte?”

Ecco, la prospettiva che voglio offrire non è soltanto cupa: invertire una tendenza così dannosa, i cui profitti sono unicamente a favore dei già miliardari imprenditori\aguzzini, è possibile, anche solo acquisendo consapevolezza delle proprie azioni. Le nostre scelte nel vestire sono il riflesso di una sensibilità ben manifesta, svincolata da distinzioni sociali e morali: ciascuno può contribuire a temperare queste ingiustizie, tendendo a mente che, la verità è alla base dell’equità. I presupposti per un progresso positivo sono dunque già fissati. A noi  non resta che scegliere.

                                                                                                                 CAROLA CRETELLA, classe V C

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