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E se anche uno studente del Telesio provasse a rispondere a Madame de Staël e alla sua Lettera sulla  maniera e utilità delle traduzioni?

Marie Eléonore Godefroid Portrait of Mme de Staël

IN RISPOSTA ALLA LETTERA DI MADAME DE STAEL

Cosenza, 5 Febbraio 1816

 

Pregiatissima Madame de Staël,

chi scrive è uno studente italiano, amante, come Lei, dei testi e della letteratura, che vorrebbe esporLe alcune sue, personali per carità, opinioni sulla lettera da Lei indirizzata proprio a noi italiani e alla nostra cultura.

Ho avuto occasione e piacere di leggere questa Sua esortazione al cambiamento, all'innovazione, ad uscire dal guscio e ad aprirsi a ciò che ci circonda e sovrasta e devo convenire che sarei anche d'accordo su alcuni punti che Lei ha sottolineato. 

Purtroppo, come scrive, la nostra letteratura manca oggigiorno di novità, di argomenti e temi inediti e sembra accontentarsi di immagini della classicità, dei miti di un passato lontano e glorioso e delle “favole” greco-romane. Dalla riscoperta di Pompei ed Ercolano e dal diffondersi del Neoclassicismo in Europa sembra passata un'eternità a livello culturale e ora intellettuali e letterati preferiscono temi come l'occulto, il mistero fuori e dentro l'animo umano, le atmosfere cupe e gotiche. Sicuramente un confronto con autori d'Oltralpe non potrebbe che far bene, stimolando la lettura di testi interessanti per ampliare il nostro orizzonte culturale. Sono riuscito, grazie ai buoni uffici di un amico fidato, a procurarmi alcune poesie scritte da due inglesi, tali Wordsworth e Coleridge e, mettendole a confronto con le composizioni dei nostri Parini e Monti, mi sono reso conto di quanto la differenza sia abissale. Se uno studente italiano poco più che diciottenne come me si sente ispirato e vuole tentare di comporre poesie che un poco somiglino alle inglesi, credo Lei sappia già quale possa essere la reazione di uomini di cultura dotti e preparati – tutti - e aperti alle novità - pochi.

Nella mia scuola i professori non fanno altro che proporci le stesse trame e argomenti triti e ritriti che inevitabilmente dopo un po' vengono a noia, non toccano l'animo dei giovani lettori, anzi, lo isteriliscono inibendo ogni velleità di scrittura. In questo senso avremmo davvero il bisogno di provare altro, di tentare nuove soluzioni, di “percorrere le strade non battute dai carri”, prendendo in prestito un'immagine callimachea. 

Tuttavia, non la penso come Lei su un concetto chiave: la “classicità” come paradiso perduto, irrecuperabile, che “il resto d'Europa ha già abbandonato e dimentico”. E' vero, come è scritto nella lettera che, mentre il Vecchio Continente sta vivendo un periodo di fermento e slancio culturale, l'Italia sembra restare ancorata a quelli da Lei ritenuti vecchi modelli e ad archetipi ormai superati da tempo, ma ci sono ragioni, e significative, sulle quali  inviterei a riflettere. Innanzi tutto, guardiamo alla situazione storico-politica. La divisione della penisola in staterelli soggiogati dal dominio straniero rende ardua la stesura nonché la diffusione di opere poetiche e prosaiche, specialmente qui a Milano dove vige la ferrea censura austriaca. Come respirare aria nuova se qui non è permesso nemmeno di respirare? L'aria circola poco, le nuove idee possono circolare poco, eppure non stiamo soffocando....

Seconda ragione, il sangue e le viscere, per esprimerci con l'ardore e lo slancio di questi nuovi scrittori, voglio dire il legame speciale, privilegiato che noi italiani abbiamo con l'antichità classica. Pompei ed Ercolano, che ho citato prima, hanno solo dato il la alla “riscoperta” del mondo antico e, se possibile, ad una nuova presa di coscienza di ciò che è stato prima, nell'arte, nella musica, nella letteratura, cultura e gloria.

Pensi, cara Madame, all'eco e all'effetto che i reperti archeologici venuti alla luce prima, in Grecia, nell'Egitto dei faraoni hanno suscitato nel Continente, specialmente nella Sua Francia napoleonica, in Germania, in Inghilterra. Il primo moderno a scrivere un trattato sull'arte classica – lo sa bene - fu proprio un tedesco, il Winckelmann, conterraneo dei nuovi poeti e scrittori romantici, e sempre un tedesco, Goethe, come molti, ha riconosciuto in Roma “la grande maestra di tutto il mondo” e nell'Italia il paese ideale in cui vivere. Che dire poi di Parigi, abbellita con opere e costruzioni ispirate alla classicità e dei francesi che si vestivano e comportavano come greci e latini? Molte nobildonne, tra cui Paolina Bonaparte e credo anche Lei, si sono fatte ritrarre in abiti antichi per richiamarsi ai modelli e ai canoni di bellezza e armonia e Napoleone stesso, ora in esilio a Sant'Elena, ha posto sul suo capo la corona d'alloro, simbolo imperiale di vittoria. Si starà ora chiedendo il perché di quest'intermezzo; ebbene, era per metterLe sotto gli occhi come la poesia e l'arte possano essere copiate, imitate e riprese a distanza di secoli. E possono anche risultare noiose, se esasperate, se mere copie. Ma ecco il punto in cui maggiormente io dissento, qui volevo arrivare. Non siamo superati, non stiamo copiando, se la forma è solo involucro e l'animo è diverso, se “su pensieri nuovi facciamo versi antichi”, come afferma un altro illustre letterato, André Chénier.

Il culto dei classici, lo scrivere poesie come quelle di Saffo o Alceo, di Ovidio e di Catullo, il contemplare un'opera neoclassica o rinascimentale (quale può essere il David e la Cupola di Michelangelo o le sculture di Canova) ci fa sentire orgogliosi di ciò che siamo stati, ci mette in comunicazione diretta con i nostri avi, ma non siamo ingabbiati, non restiamo prigionieri. La forma perfetta di queste opere ci cattura perché non si può non ammettere, Madame, che quell'idea, quel pensiero, quel sentimento è stato espresso, partecipato a tutti come meglio non si potrebbe. Restiamo attoniti, muti e scegliamo la perfezione, ma non disconosciamo l'essenza se è nuova, moderna, dirompente. Quando leggiamo i classici, come affermava Machiavelli, conosciamo persone illustri, entriamo nelle loro dimore, gli poniamo domande a cui loro rispondono volentieri ed impariamo a conoscere, prima di loro, noi stessi e ciò che siamo come uomini e italiani. Non potremo mai mettere da parte o buttare alle ortiche questo “vecchiume” - come Lei lo definisce – ne siamo ammirati, è parte di noi, continuiamo a seguirne le orme, a dipanare quel filo che ci è stato consegnato attraverso i secoli con la mente, il cuore e l'animo moderno. E' il filo dell'amore per la vita e per il bello, per il piacevole e per il nobile, per l'elegante e il semplice. Sempre “alla moda”, senza tempo, immortale.

Lei interesserà tuttavia sapere che già alcuni nostri autorevoli poeti hanno tentato nuove strade e si sono avventurati al di là di quella che vuole essere considerata la “forma convenzionale”. Essi sono Vittorio Alfieri, inguaribile ribelle e fiera personalità, e Ugo Foscolo, sognatore, avventuriero e animo forte e grande. Credo perciò che un giorno il nuovo Romanticismo sarà apprezzato nella sue forme a lei così care e gli intellettuali italiani sapranno imparare da questo, farlo proprio, ma a modo loro. Spero di non averLa annoiata con questa lettera e di non esserLe sembrato ripetitivo, ma soprattutto spero che la mia lettera Le abbia fatto intendere che, nonostante il mondo vada avanti, non posso né potrò mai dimenticarmi di ciò che sono, delle mie origini e di ciò che mi rende italiano e fiero di esserlo.

Porgo ossequiosi omaggi.

Simone Catizone, studente italiano 

Liceo Classico "B.Telesio", classe V  Sez. E

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